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Fughe


Di Annamaria Francese


L'androne era vuoto. A terra un grosso albero di Natale senza radici, tirato fuori dal vaso e accantonato in un angolo, in attesa di essere buttato via.

Il palazzo era vecchio, di antica costruzione, con una sua bellezza offuscata dai danni e dal tempo, con ancora le crepe dell'ultimo terremoto e le scale antiche dai gradini in pietra, sbreccati in più punti.
Un palazzo abitato da gente in gran parte anziana, poco abbiente e tuttavia da ritenersi fortunata per il fatto di avere un appartamento, in affitto a basso costo o di proprietà, in una grande città dove ogni buco costava una cifra enorme e dove era comunque difficile abitare.
Le stanze erano grandi e gelide, pochissimi appartamenti avevano un impianto di riscaldamento, altri si difendevano con stufe di vario genere e di vario costo.

Adalgisa era una di quelle che si riscaldava (ma era un eufemismo) con una vecchia stufa a gas che, a malapena, ti faceva sentire un po' di calore quando le sedevi accanto, insufficiente come era per quegli ambienti così grandi e per gli spifferi che entravano dagli infissi malandati. Due stanze enormi, suddivise da tramezzi fissi o semoventi, che creavano una parvenza di privacy per una famiglia di quattro adulti e un anziano.

Un solo bagno per tutti, ovviamente. Adalgisa era giovanissima anche se aveva un nome antico come la casa e da quella sognava di andar via ogni mattina, quando apriva gli occhi e ogni sera ,quando rientrava dal suo faticoso lavoro che tuttavia le permetteva di stare per tutto il giorno in una bella casa calda e di restare anche all'ora dei pasti.

Quella sera, rientrando, diede un'occhiata all'albero spoglio e si avviò su per le scale con passo stanco. Non aveva voglia di ritornare, come sempre. Solo l'idea del freddo, del vecchio televisore da condividere con padre, madre, fratello e zio le dava tristezza. Per non parlare poi della cena, consumata in silenzio davanti al telegiornale, con le teste nel piatto, la solita pasta sciapita e la fretta di alzarsi.

Quella sera più che mai. Per contrasto le venne in mente la bella tavola dove sedeva a pranzo, sempre ben apparecchiata, con una donna che serviva loro pasti ben cucinati e vari. L'atmosfera sembrava più serena di quella di casa sua, nonostante la grande disgrazia della piccola, di cui lei si occupava, e la malinconia che a volte traspariva nelle occhiate furtive della madre. Per il resto si parlava, si sorrideva, anche con la piccola, come se la malattia fosse un fatto naturale con il quale convivere. E a lei sembrava che fosse meglio così.

Quella sera Adalgisa si alzò senza quasi aver toccato cibo."Non hai fame?"-le chiese la madre distrattamente. Lei scosse la testa e si allontanò.

Con la coda dell'occhio vide il braccio di suo fratello Paolo allungarsi verso il piatto che aveva lasciato. Lui ingurgitava qualunque cosa, d'altra parte aveva solo quindici anni e un appetito giovane.
Lei si ritirò dietro il paravento.
Per fortuna aveva la sua musica e le sue cuffiette e, stesa sul letto, poteva fingere che tutto il resto non esistesse. Il suo mondo allora diventava improvvisamente caldo, nuovo e colorato come quello di un film per ragazzi. Con gli occhi chiusi vedeva onde del mare infrangersi sugli scogli, aquiloni inseguire le nuvole e sorrisi, sorrisi ovunque.

E poi vedeva lui...
E allora i sogni si confondevano, si imbrogliavano e all'improvviso un tuono lontano la risvegliava e quel pericoloso dormiveglia finiva. Solo la musica nella cuffia restava e quel bisogno insopprimibile di fuggire.

Alle sei del mattino Elena si aggirava per casa in preda alla solita disperazione.
Nel silenzio delle grandi stanze si sentiva soffocare e scioglieva la cintura della vestaglia come se qualcosa le opprimesse lo stomaco. Entrò piano nella stanza della figlia che, sdraiata nel suo letto, ancora dormiva e sembrava una bambina del tutto normale, se non fosse stato per quel ciondolo appeso al suo petto che conteneva il pulsante di un campanello elettronico e per quella sedia a rotelle ferma in un angolo.

Nella penombra Elena guardò i suoi capelli biondi adagiati sul cuscino e poi si allontanò, augurandosi, come ogni mattina, che dormisse il più a lungo possibile. Non sapeva il perché di quel desiderio. Forse sperava che Diletta soffrisse il meno possibile, forse sperava di soffrire meno lei stessa, forse contava sull'arrivo di Adalgisa, e non per egoismo o per scaricarsi un po' della fatica, ma solo perché dividesse con lei la pena di quelle ore interminabili. E poi le sembrava che la ragazza fosse contenta di occuparsi della piccola e che anche Diletta se ne giovasse.
Magari fosse riuscito a lei di dormire a lungo, di soffocare nel sonno tutti i suoi tristi pensieri. Quelli che faceva all'alba, poi, erano i più disperati.

La sua vita le sembrava senza via d'uscita. Per sua figlia non c'erano soluzioni, anzi, si poteva solo sperare di allontanare il più possibile l'esito finale. Lei aveva smesso di lavorare e anche la sua vena di pittrice si era esaurita in brevissimo tempo, dopo la scoperta della malattia. Incapace di occuparsi con costanza di qualsiasi cosa, anche solo dell'andamento della casa, aveva tuttavia denaro a sufficienza per circondarsi di persone che lo facevano al suo posto.E così la giornata era sempre più lunga e più vuota.

Suo marito aveva smesso di prendersi cura di lei già da un po'. Dapprima aveva fatto del suo meglio per consolarla, per esserle di aiuto in qualche modo. Ma Elena si era chiusa nella sua sofferenza e lo aveva lasciato andare. Nella sua vita di dolore non aveva più spazio per lui.
Durante il giorno, nel quotidiano svolgersi dei loro incontri per la colazione e il pranzo, la conversazione era affettuosa e leggera. Confortata anche dalla presenza di Adalgisa e della donna di servizio.
A sera si incontravano di rado perché lui rientrava tardi e lei, dopo aver messo a letto la piccola, ormai sola nella grande casa, sprofondava in un divano con un bicchiere tra le mani e un libro che non avrebbe letto.
Per il resto, due vite ormai distanti, pur nella loro vicinanza fisica, e assolutamente inconciliabili. Quella vita e quella casa erano una prigione dalla quale lei si augurava di non dover mai fuggire, perché questo avrebbe significato la fine dell'unica ragione che li teneva ancora assieme.

Lei non voleva pensarci, ma ci pensava. Si sentiva come una mosca presa nella tela di un ragno, una tela invisibile e vischiosa.

Guardò l'orologio: quasi le otto, l'ora dell'arrivo di Adalgisa. Prima che lei bussasse Elena si avvicinò al tavolino dei liquori e si versò il suo primo bicchiere, il primo passo di tanti altri sulla strada della sua fuga giornaliera. Poi andò ad aprire la porta.

Carlo era proprio stremato.
Un giorno di lavoro intenso che non gli aveva permesso neppure di rientrare per pranzo, seguito da una notte insonne e agitata che lo aveva visto in piedi già all'alba. Aveva preparato lui il caffè e aveva aspettato che sua moglie lo seguisse, alzandosi una volta tanto dopo di lui. Si erano scambiati il "buongiorno" di rito e insieme si erano affacciati nella stanza della figlia che dormiva. Poi lui era andato a prepararsi per uscire.

Alle otto Adalgisa era là, pronta per occuparsi di Diletta, non appena ce ne fosse stato bisogno. Qualche volta era Elena che lavava e vestiva la bambina, ma in genere se ne occupava la giovane. Quella mattina Diletta non si era ancora svegliata e Carlo si fermò a scambiare due chiacchiere con Adalgisa.

Il tempo fuori era grigio, l'aria scura di una giornata che promette pioggia e l'uomo muoveva qualche passo nervoso in giro per la casa senza decidersi ad uscire. La ragazza lo seguiva con lo sguardo, che distoglieva in fretta quando lui si girava a guardarla. Al piano superiore Elena lasciava scorrere l'acqua nella vasca e si aggirava per la camera da letto con il bicchiere in mano. In tutta la casa solo il basso ronzio di una voce alla radio e l'acciottolio delle stoviglie in cucina dove intanto era arrivata Luisa, la domestica.

L'aria nella casa era ancora più cupa di quella fuori.

Ad un tratto Carlo si chinò verso di lei per offrirle una tazza di caffè. L'odore dei suoi capelli gli diede all'improvviso un leggero senso di vertigine. Si scostò in fretta e chiese:
- Ti fermi tutto il giorno, non è così?
-Come sempre - rispose la ragazza, alquanto sorpresa della domanda.
- Già - fece lui, quasi distratto.

Si vedeva che il suo pensiero era altrove, si capiva che aveva voglia di dire qualcosa che non diceva.
Lei lo guardò ancora e per un attimo i loro sguardi si incrociarono. Nei loro occhi le fughe avevano il colore di mari lontani, di orizzonti larghi e spazi senza limiti.
L'uomo girò in fretta su se stesso, salutò e uscì chiudendosi il portoncino alle spalle.
Allora Adalgisa si alzò, si accostò alla finestra e lo seguì con lo sguardo mentre saliva in macchina. Lui si volse a guardare la casa e fece un cenno con la mano, non si sa bene a chi, poi varcò il cancello che si richiuse con un rumore sordo.

La strada sotto le ruote dell'auto era liscia e umida, gli alberi intorno diradavano man mano che lasciava il viale per avvicinarsi al centro. E si allontanava anche la casa. Ma non il pensiero di lei.

Risentì quel profumo di capelli che gli aveva dato il capogiro e divagò pensando ad altri odori, a quello della sua pelle giovane, del suo alito caldo. Rivide il suo sorriso triste e adulto e capì che quella sua interna agitazione rischiava il punto di rottura.

Si chiese cosa dovesse fare e non trovò risposte.
Arrivò al suo studio mentre cadevano le prime gocce di pioggia. Posò la testa sui polsi incrociati sul volante.

Elena era la sua inaridita realtà, Adalgisa il sogno della fuga, Diletta la prigione che li teneva tutti lì, con le sue piccole mani sempre più inerti e il suo aspetto di bambola ferita.
Si fece forza e uscì dall'auto.
Il suo giorno era appena all'inizio.



Argomenti:   #racconto



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