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Anno V n° 12 DICEMBRE 2009 TERZA PAGINA |
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Il canto di Adamo
Francesco Messina: scultore che si ispira alla classicità, non come linguaggio accademico ma come lingua naturale anche per i nostri giorni
Di Giovanni Gazzaneo
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“Credimi, non è più il tempo per una scultura come la tua. Viviamo nell’era atomica e domani, o fra qualche anno, il mondo può scomparire. E tu credi ancora alla posterità. Sei proprio matto”(1). Le parole che Lucio Fontana rivolge all’amico Francesco Messina, cocciutamente estraneo alle correnti e alle mode, ci danno la cifra dell’opera dello scultore che ha attraversato quasi tutto il Novecento: la volontà di non piegarsi al momento storico e di proporre un’arte capace di sfidare il tempo. Messina crea perché la sua opera vada oltre la contemporaneità e sia per sempre. Modella le sue figure ispirandosi alla classicità, non linguaggio accademico ma lingua naturale anche per i nostri giorni. Non teme la realtà, vuol coglierne la forma e offrircene l’essenza. E per questo Messina si è impegnato fin da giovanissimo in un confronto con il soggetto religioso e con il sacro. Scrive nelle sue memorie: “Una statua egizia esprime, nella sua drammatica staticità, solo un movimento il cui contenuto approda al porto del mistero eterno. Narrare, illustrare non è determinante nelle arti figurative. Ciò che vale si imparenta con l’eterno: è la metafisica, intesa quale l’espressero i maestri del passato o come la consegue, nelle più felici immagini, la fantasia moderna”(2).
L’artista mantiene fede a uno stile e a una bellezza che non si rassegna al dominio del caos e del disordine. “Solo di fronte a Dio l’uomo si placa e apre il cuore alla speranza, alla serenità. Nell’arte in voga oggi, il primo elemento che avvertiamo è l’indifferenza, o ignoranza, non solo riguardo al verbo di Cristo ma al più elementare umanesimo, senza i quali non si può neppure pensare a un’arte religiosa… L’uomo d’oggi è disincantato. Egli non ha più, come l’antico, limpidità di sguardo e sicurezza di azioni, ma, come disperso, si muove in un deserto dove tutto è miraggio”(3). Per Messina fede in Dio e fede nell’uomo sono coessenziali all’arte. Un fatto quasi naturale per lui che aveva appreso il mestiere e il catechismo nel laboratorio di Giovanni Scanzi, scultore a cui si devono alcuni dei monumenti più significativi del Cimitero di Staglieno a Genova: “Da lui imparai, in un anno, tutto il mestiere che ancor oggi governa il mio lavoro. Scanzi era un adorabile vecchio settantacinquenne. Io posavo per un angelo che egli scolpiva nel marmo. Durante le pose intendeva benevolmente istruirmi, facendomi domande sugli argomenti biblici che costituivano fonte inesauribile d’ispirazione per i suoi monumenti funerari. ‘Franzescu, ti see chi u lea Giuseppe’ (Francesco, sai chi era Giuseppe?). Io arrossivo, perché non capivo ove volesse andare a parare con domande simili. Giuseppe: pensavo chi poteva mai essere se non il vecchio e grasso bidello dell’Accademia dove lo Scanzi aveva insegnato per tanti anni? ‘Giuseppe? Ah sci, u lè u purtee de l’Academ’. ‘Ignorante!’ mi sentivo apostrofare in italiano: ‘Giuseppe, quello della Bibbia…’(4). La novità del linguaggio classico di Messina è nello sguardo pieno di stupore con cui si apre all’uomo, approccia la Bibbia, si avvicina alla storia dei santi per comporre il canto della vita. Il fare memoria delle figure o degli eventi della storia della salvezza ha tutta la freschezza della testimonianza, di una bellezza indissolubilmente legata al vero e alla sua manifestazione. La sua è una religiosità alimentata dall’incontro con i testimoni della fede: dalla radicalità dell’umile padre Genesio al cardinale Schuster, da don Luigi Orione a Marcello Candia. Nell’opera sacra di Messina, scrive Antonio Paolucci, “c’è la Natura perché l’immagine umana, vista e amata nello splendore del Vero, è sempre l’esclusiva protagonista. C’è la Cultura perché per Messina gli episodi della storia sacra prima ancora di essere veri e venerabili per se stessi, sono veri e venerabili perché parte di noi, come la lingua che parliamo, come l’aria che respiriamo”(5). Ma è anche una religiosità di tipo evocativo e sentimentale nutrita di pietas per le forme storiche della bellezza e di adesione colta e animata dalla gratitudine verso le iconografie tradizionali e i valori che le alimentano. Così la figura eredita la storia dell’arte che l’insaziabile Messina ha immagazzinato nella sua mente e nel suo sguardo, un lascito che gli permette di andare oltre rispetto alla falsa idea di creare dal nulla, dell’invenzione che si pensa possibile solo facendo il vuoto. Fedele in questo all’insegnamento di Carlo Carrà: “Chi si astiene dallo studio dei grandi autori per tema di perdere la sensibilità nativa, non creerà che una forma d’arte senza radice e senza reale eccellenza. Il problema dell’arte è, per due terzi, un problema di cultura”(6).
La genesi dell’opera sembra segnata dal travaglio del parto: quella che assale Messina è quasi una mania profetica che trapela anche nel monumento a Pio XII per la basilica vaticana. Per la realizzazione dell’effigie fu indetto un concorso nel 1960, senza però risultati soddisfacenti. Allora il cardinal Spellman, arcivescovo di New York e molto legato a Pacelli, invitò lo scultore a presentare un suo bozzetto, che fu approvato. Ritornato a Milano si chiuse nello studio di Brera per alcuni mesi. Non gli dava pace il pensiero che la sua opera sarebbe stata vicina a quelle di Michelangelo, Bernini, Canova. Presentò il modello in gesso di quella che doveva essere una statua in marmo di quasi quattro metri. Approvato dai cardinali, non soddisfece però Messina che continuava a ripensare alla cappella, all’illuminazione, alla scultura di fronte, quella di Pio XI di Pietro Canonica, poi sostituita da un’altra di Francesco Nagni. Crea nuovi bozzetti, la mitria sostituisce la tiara – non più papa re ma pastore –, il marmo diviene bronzo laminato d’oro nelle decorazioni del manto e del copricapo. Messina vuole ricordare Pacelli, papa e vescovo di Roma durante l’ultimo conflitto, ispirandosi al Cristo giudice della Sistina. Il braccio levato in alto, però, non convince: i cardinali gli dicono che un papa non condanna. E così la mano all’altezza del mento diventa benedicente. Le vicende della guerra legano papa Pacelli a Ildefonso Schuster, il cardinale arcivescovo di Milano. Ma, nei rispettivi ritratti offerti da Messina, quanta differenza tra la severità magnetica del principe pontefice e l’inflessibile docilità dell’abate benedettino. Lo scultore ne considerava il ritratto, realizzato in più versioni sia in marmo che in bronzo, uno dei suoi migliori. Il cardinale aiutò Messina nel 1939 nella donazione del monumento di santa Rosa a Viterbo. L’artista si recò in udienza per ringraziarlo e colse l’occasione per chiedergli di posare per lui. “Da tempo vagheggiavo di modellare il busto dello spirituale e delicatissimo arcivescovo – scrive Messina nelle sue memorie –. Subito egli si rabbuiò in volto, come se gli avessi lanciato una offesa. E a voce bassa e testa china dichiarò: ‘Non ho mai posato per nessuno, ma per lei farò questa penitenza’(7)”. La capacità di cogliere la gracilità fisica e insieme la grande forza spirituale fa di quest’opera – un “semplice” ritratto – uno dei capolavori dell’arte religiosa del secolo scorso. E la scultura di santa Rosa, che tanto piacque alla madre superiora delle cateriniane, fu anche all’origine dell’invito a realizzare un monumento a santa Caterina da Siena per Castel Sant’Angelo a Roma in occasione del quinto centenario della canonizzazione, che cadeva nel 1962. Messina intraprende “quasi un pellegrinaggio” alla volta di Siena: la casa natale di Caterina, Fontebranda, la reliquia del capo in San Domenico. Ne studia l’iconografia, rilegge le lettere e le biografie fondamentali. E poi disegni, studi, bozzetti a non finire. Caterina, sotto tre grandi pini romani, è rappresentata in cammino. Quattro rilievi, in uno stile crudo ed evocativo che a Paolucci ricorda Masaccio, ne illustrano i momenti fondamentali della vita. La partecipazione dello scultore al lavoro è totale, tanto che Messina si fa carico di una sofferenza che pare ispirata alla mistica della santa senese: “Iniziai a disegnare i volumi e l’immagine della santa con grossi martelli pneumatici… Uscivo da quell’aggressione alla dura materia tutto bianco dalla testa ai piedi. Fu però una esaltazione che lasciò tracce dolorose, perché il martello pneumatico mi traumatizzò le braccia e, soprattutto, le mani che da allora cominciarono a dolermi in modo preoccupante… Ritornato in albergo Bianca doveva imboccarmi come un bambino perché il dolore non mi consentiva di reggere le posate. Ma non cedevo. Il mattino dopo, prestissimo, riprendevo a lavorare”(8). Messina coraggioso, caparbio, mai soddisfatto. Classe 1900, di Linguaglossa ma migrato in fasce a Genova, inizia a lavorare a otto anni. Studi di terza elementare eppure riesce a legare con Montale e poi con Quasimodo. Con sacrificio va alle scuole serali per approdare all’Accademia e avventurarsi in una ricerca continua, instancabile, in solitudine e non sempre compresa.
Note 1) Francesco Messina, Poveri Giorni, Milano, 1974, p. 260 (d’ora in poi FM) torna 2) FM, p. 37 torna 3) Francesco Messina, Tradizione e arte religiosa, estratto da “Città di Vita”, Firenze, anno V, n° 2, 1950, p. 2 torna 4) FM, pp. 42-43 torna (5) A. Paolucci, in Francesco Messina, scultura disegni e poesia 1916-1993, Milano, 2002, p. 23 torna (6) FM, p 106 torna (7) FM, p. 152-153 torna (8) FM, p. 171 torna (9) FM, p. 11 torna |
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