La società italiana è una società testardamente replicante. Quel «non saremo più come prima» che un anno fa dominava la psicologia collettiva è mutato in un «siamo sempre gli stessi». Abbiamo resistito alla crisi riproponendo il tradizionale modello adattativo-reattivo: non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono patrimonializzate. La crisi ha finito per rallentare il processo di uscita dal puro adattamento intravisto lo scorso anno, quando all’orizzonte si presentava quasi una «seconda metamorfosi», dopo quella degli anni fra il ’45 e il ’75. Sono però in corso alcuni processi di trasformazione.
La dura ristrutturazione del settore terziario. È la prima nella storia dell’Italia moderna. Lungo i tanti rivoli del confuso mondo terziario sono confluiti nel tempo servizi alle imprese sovradimensionati rispetto alle esigenze, «qualcosisti» del terziario avanzato, precari della Pubblica Amministrazione alla ricerca del posto fisso, assunzioni nella scuola per risolvere la troppo drammatizzata disoccupazione intellettuale. Il rallentamento dello sviluppo, dei consumi, delle disponibilità di spesa ha oggi ridotto quelle «cavalcate espansive». Nel terziario si affermano meccanismi di selezione e razionalizzazione, con «una concentrazione qualitativa della domanda che mette fuori gioco una parte consistente di una offerta da sempre abituata ad una falsa facilità del mercato». E nel pulviscolo di piccole e piccolissime imprese operanti nel commercio, nel turismo, nell’artigianato di servizio già si conta un rilevante numero di «vittime».
Il protagonismo del mondo delle imprese. È poi in atto un ulteriore passo in avanti nel riconoscere al sistema d’impresa un ruolo di traino e leadership complessiva della società. Il segmento più dinamico dell’imprenditoria italiana ha saputo combinare le strategie di presenza sui mercati mondiali (delocalizzazione, logistica, concentrazione sul momento distributivo, catene commerciali monobrand, privilegio del mercato del lusso e di alta qualità) con strategie innovative (velocizzazione dei tempi, capacità di giocare «fra le linee», cioè cercando spazi e varchi non usuali, attitudine ad operare anche in termini di scambi reali, talvolta assimilabili al baratto). Si rafforzano molti big player, molte medie imprese e anche una quota di piccoli imprenditori.
Il ritorno agli interessi agiti «in presa diretta» rispetto al primato dell’opinione. Gli interessi si coagulano sempre meno nella loro rappresentazione all’interno del mondo dell’opinione, cercano piuttosto una agibilità diretta nella dinamica socioeconomica. Il mondo della rappresentanza ha perso la sua carica identitaria (di classe, di gruppo sociale, di movimento) e «ritorna in piena nudità e senza pudori la seconda gamba, quella degli interessi reali». Non solo tra i big player, ma anche nelle grandi filiere (si pensi alle vicende energetiche e nucleari), nelle intese internazionali, nei territori (non a caso la cultura leghista fa «sindacato del territorio»). E irrompono anche interessi «privatistici» nel pericoloso mix fra politica e affari in delicati settori pubblici, dalle infrastrutture alla sanità.
«Viviamo in un mare tumultuoso di opinioni». Tuttavia, le componenti sociopolitiche, partitiche o giornalistiche, anche quando non cedono al degradarsi verso il gossip, restano prigioniere nell’esasperazione di un diffuso antagonismo (talvolta a forte tasso di personalizzazione) che non permette loro di uscire dal recinto dell’opinionismo. Nell’«antagonismo vissuto colpo su colpo», i soggetti politici perdono il ruolo di ricerca, sintesi interpretativa e proposta che solo può legittimarne la leadership. Non abbiamo nessuno spazio di autorità condivisa, e non bastano a restituire allo Stato autorità e fiducia isolati episodi di un buon governo del fare. «La corrosione esercitata dal primato dell’opinione ha comportato un grande deficit di interpretazione sistemica, di capacità e volontà di definire una direzione di marcia su cui orientare gli interessi in gioco».
Tre cicli al tramonto. Le tre grandi culture cui si è abbeverato lo sviluppo italiano degli ultimi centocinquanta anni sono sempre meno spendibili come fattori di mobilitazione sociale e politica. La prima è la cultura risorgimentale, quella che ha fatto storicamente l’Italia e gli italiani, per cui il futuro del Paese era legato alla centralità dello Stato come grande soggetto facitore di regole omogenee sottoposte a costante controllo e rispetto. La seconda è la cultura riformista nata nel secondo dopoguerra, per cui le classi dirigenti modificano le strutture pubbliche in risposta ai bisogni sociali. «Ma oggi chi ha bisogno di garanzie per la sua vita anziana non crede che il suo problema verrà risolto dalla riforma pensionistica, chi ambisce a dare ai figli livelli formativi competitivi non crede che servirà la riforma della scuola e dell’università, chi avverte la drammaticità della propria posizione occupazionale non crede nella riforma del mercato del lavoro, chi avverte la inefficienza degli apparati burocratici non crede che sarà una riforma della Pubblica Amministrazione a ridare agevolezza al rapporto fra cittadini e Stato». Infine, dagli anni ’70 in poi si è affermato il terzo ciclo, quello del protagonismo individuale, con la crescita esponenziale del lavoro autonomo e della piccola e piccolissima impresa, del soggettivismo nei comportamenti, della personalizzazione del potere politico, della ideologia della competizione e del mercato. Ma anche il primato della soggettività è destinato a sfarinarsi silenziosamente. «L’individualismo vitale è sempre meno capace di risolvere i problemi della complessità che lo trascende, il soggettivismo etico mostra la corda rispetto all’esigenza di valori condivisi, la spietatezza competitiva e la carica di egoismo che derivano dal primato della soggettività hanno creato squilibri e disuguaglianze sociali che pesano sulla coesione collettiva».
Cosa verrà dopo? «Nella psicologia collettiva c’è nel profondo un dolente mix di stanchezza e vergogna per i tanti fenomeni di degrado valoriale, o almeno comportamentale, che caratterizzano la vita del Paese. E c’è di conseguenza la speranza di uscirne, con una propensione a pensare al dopo, a una società capace di migliorarsi». Ma le discussioni in corso «guardano indietro», sono cioè condizionate dalla inerziale permanenza dei tre cicli precedenti, oppure «fuggono in avanti, rincorrendo una fantasmatica ipotesi di nuova ontologia», individuata talvolta nel fondamentalismo dei valori e della loro radice religiosa, talvolta nel fondamentalismo della scienza.
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