REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno V n° 12 DICEMBRE 2009 FATTI & OPINIONI


Censis - Il Rapporto annuale 2009 in pillole
Le famiglie resistono alla crisi, rischi per il lavoro, dura ristrutturazione del terziario
Dal 43° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2009



La stressata resistenza delle famiglie. Nel mezzo della crisi, per il 71,5% delle famiglie italiane il reddito mensile è sufficiente a coprire le spese. Il dato sale al 78,9% al Nord-Est, al 76,7% al Nord-Ovest, al 71% al Centro, al Sud scende al 63,5%. Il 28,5% delle famiglie che hanno avuto difficoltà a coprire le spese mensili con il proprio reddito ha fatto ricorso a una pluralità di fonti alternative, con una miscela che si è dimostrata efficace. Il 41% ha toccato i risparmi accumulati, in oltre un quarto delle famiglie uno o più membri hanno svolto qualche lavoretto saltuario per integrare il reddito, più del 22% ha utilizzato la carta di credito per rinviare i pagamenti al mese successivo, il 10,5% si è fatto prestare soldi da familiari, parenti o amici, l’8,9% ha fatto ricorso ai prestiti di istituti finanziari e il 5,1% ha acquistato presso commercianti che fanno credito. Negli ultimi 18 mesi più dell’83% delle famiglie ha però modificato le proprie abitudini alimentari. Quali cambiamenti sono stati introdotti? Il 40% ha contenuto gli sprechi, il 39,7% ha cercato prezzi più convenienti, il 34,8% ha eliminato dal paniere i prodotti che costano troppo. Dal punto di vista psicologico, il 36% degli italiani ha subito in questi mesi maggiore stress (insonnia, litigiosità, ecc.) per motivi legati alla crisi (difficoltà lavorative, di reddito, ecc.) e il dato sale a quasi il 53% tra le persone con reddito più basso. Riguardo al futuro, da un’indagine su un campione di famiglie del ceto medio realizzata dal Censis nel novembre 2009 emergono indicazioni su quali siano i soggetti che devono essere aiutati per favorire la ripresa. Le famiglie con figli (49,7%) e i giovani (48,8%), piuttosto che gli anziani (21,8%), dovrebbero essere nel sociale i destinatari della quota più alta di risorse, visto che sono stati i più penalizzati dalla crisi. Nell’economia, oltre il 33% del campione ritiene importante aiutare la piccola impresa, meno del 5% richiama la necessità di supportare le grandi aziende. Il 57,7% delle famiglie del ceto medio ritiene poi indispensabile ridurre le tasse sui lavoratori dipendenti, il 42,3% è convinto invece che solo la riduzione di imposte e oneri gravanti sulle imprese (ad esempio, la progressiva abolizione dell’Irap) favorirà la ripresa.

Le zone critiche nella flessione occupazionale. Fino a oggi il mercato del lavoro in Italia ha retto. A metà del 2009 risultavano persi, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, 378 mila posti di lavoro (-1,6%), meglio di Spagna (1 milione 480 mila occupati in meno, -7,2%) e Gran Bretagna (600 mila, -2%), ma peggio di Francia (-0,3%) e Germania (+0,5%). Gli effetti negativi hanno riguardato solo i soggetti meno tutelati: il lavoro autonomo (a giugno 277 mila occupati in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, -5,8%) e l’ampio bacino del «paralavoro» (162 mila posti in meno, -4,3%). Ad essere colpite maggiormente sono state le diverse forme di lavoro a termine (-229 mila lavoratori, -9,4%), le collaborazioni a progetto (-12,1%) e quelle occasionali (-19,9%), mentre il popolo delle partite Iva è aumentato, a causa della sostituzione dei contratti flessibili con formule ancora più esternalizzate e a basso costo, raggiungendo quasi quota un milione (+132 mila, +16,3%). Il lavoro tradizionale, dipendente e a tempo indeterminato, ha invece continuato a crescere, registrando nel periodo 2008-2009 un +0,4% (oltre 60 mila posti in più). Ma la tenuta non c’è stata in tutto il Paese, né in tutti i settori. Al Sud sono stati bruciati 271 mila posti di lavoro (-4,1%), l’industria e il turismo hanno subito una riduzione del 4% e il commercio del 3,5%. Il 45,4% di chi ha perso il lavoro nell’ultimo anno ha meno di 34 anni. Il 47,3% dei nuovi inoccupati è uscito definitivamente dal mercato del lavoro (il 64,1% tra i lavoratori indipendenti). L’onda ristrutturatrice delle imprese, inseguendo la ripresa. Quella del 2009 è una crisi fortemente differenziata. Alla preoccupante flessione delle esportazioni del manifatturiero (-24% nei primi 8 mesi dell’anno) corrispondono saldi positivi della bilancia commerciale per la meccanica (23,7 miliardi di euro), il tessile-abbigliamento (7,4 miliardi), le produzioni in gomma e plastica (5,8 miliardi), i prodotti in metallo (5,6 miliardi), l’elettronica (4,3 miliardi) e i mobili (3,6 miliardi). Segno negativo invece per l’alimentare (-1,8 miliardi di euro), il farmaceutico (-2,7 miliardi), la produzione di mezzi di trasporto (-3 miliardi), i prodotti chimici (-4,8 miliardi) e l’elettronica (-7,7 miliardi). Tra gennaio e settembre si registra la riduzione di quasi l’1% delle imprese manifatturiere (oltre 30.000), ma è il commercio al dettaglio il settore più colpito, con più di 50.000 aziende cessate. L’intero settore terziario è entrato in una fase di profonda riorganizzazione, con un saldo fortemente negativo tra iscrizioni e cancellazioni di imprese: -10,1 imprese per 1.000 imprese attive nei primi 9 mesi dell’anno (162.000 imprese cessate). I comparti più in difficoltà sono: trasporti e magazzinaggio (-29,1 per 1.000 imprese attive), immobiliare (-16,9), attività finanziarie e assicurative (-12,5), servizi di informazione e comunicazione (-8,5), servizi legati al turismo (-6,5).

Il ciclo calante dell’individualismo fai da te. Si sta compiendo un processo di lento svuotamento di alcune linee evolutive su cui era cresciuto il nostro Paese nel corso degli ultimi cinquant’anni: il ciclo dello Stato-nazione, il ciclo del riformismo e quello della centralità del privato rispetto all’impegno collettivo. Si fa strada una modalità nuova di intervento comune fra soggetti pubblici, privati e singoli individui, che rimanda a un modello comunitario in cui abbiano più spazio soluzioni personalizzate e il più possibile immediate. Emblematica è la reazione dei Comuni di fronte alla crisi, che hanno messo in campo uno sforzo di coordinamento con altri soggetti e istituzioni locali: il 58,3% con le Province, il 54,2% con i sindacati, il 50% con le Camere di commercio, il 41,7% con le Regioni, il 41,7% con le associazioni datoriali, il 29,2% con altri Comuni.

La ricchezza occulta da evasione fiscale. L’Italia è al sesto posto in Europa per peso dell’imposizione fiscale sul Pil, con una incidenza del 42,8% a fronte di una media europea del 39,8%. Però solo il 2,2% dei contribuenti (893.706 in valore assoluto) dichiara un reddito che supera i 70.000 euro annui, circa il 50% degli italiani presenta redditi che non vanno oltre i 15.000 euro e il 31% dichiara tra 15.000 e 26.000 euro. Il reddito medio dichiarato è di 18.373 euro pro-capite: si va da un massimo di 20.851 euro nel Nord-Ovest a un minimo di 14.440 euro al Sud. La provincia con il valore più alto è Milano, con una dichiarazione media di 24.365 euro, l’ultima è Vibo Valentia, con 12.199 euro per contribuente. Secondo le stime del Censis, l’economia sommersa si aggira intorno al 19% del Pil. Con la crisi tale quota potrebbe essere aumentata, raggiungendo un valore di 275 miliardi di euro.

Fragilità del territorio e declino delle opere pubbliche. Nel nostro Paese i beni pubblici attraversano un ciclo di progressivo indebolimento. Dal dopoguerra a oggi gli eventi disastrosi hanno determinato la perdita di 1.446 vite umane e un costo per la collettività di 16,6 miliardi di euro (al netto delle tragedie del Vajont del ’63 e della Val di Stava del 1985, che hanno causato rispettivamente 1.909 e 265 morti). Il livello di esposizione è elevatissimo: le aree a rischio di frana e a rischio alluvionale coprono rispettivamente il 5,7% e il 4,4% del territorio nazionale. Sono 5.708 i comuni interessati da fenomeni franosi, con 992.400 persone a rischio (circa l’1,7% degli italiani). E quasi 3 milioni sono gli italiani esposti a rischio sismico «elevatissimo», circa 24 milioni se si considerano le aree a rischio «elevato».

La forza perduta dell’istruzione. Circa l’80% dei giovani tra 15 e 18 anni si chiede che senso abbia stare a scuola o frequentare corsi di formazione professionale. Dominano il disincanto e lo scetticismo: il 92,6% dei giovani in uscita dalla scuola secondaria di II grado ritiene che anche per chi ha un titolo di studio elevato il lavoro sia oggi sottopagato, il 91,6% pensa che sia agevolato chi può avvalersi delle conoscenze. Anche il 63,9% degli occupati giudica inutili le cose studiate a scuola per il proprio lavoro. La visione pessimistica travalica i confini dell’universo educativo: il 75% dei laureati e l’85% dei non laureati di 16-35 anni pensano che in Italia vi siano scarse possibilità di trovare lavoro grazie alla propria preparazione. Effettivamente i laureati italiani in economia e in ingegneria hanno attese di remunerazione minori rispetto ai loro colleghi europei: nel 2009 il primo stipendio annuo atteso è inferiore rispettivamente del 20,2% e del 21,4% di quello medio europeo. E ancora il 19,3% dei giovani italiani di 18-24 anni non è in possesso di un diploma e non è più in formazione, contro il 12,7% di Francia e Germania, il 13% del Regno Unito, il 14,8% medio europeo.

Le mani legate della spesa pubblica. Le previsioni di spesa contenute nei documenti di programmazione economica e finanziaria per il periodo 2008-2013 mostrano la rigidità della dinamica della spesa e l’assenza di risorse da mettere in campo per gli investimenti. Le spese finali della Pubblica Amministrazione, ormai sopra la soglia degli 800 miliardi di euro (quasi 900 miliardi a fine periodo), oscillano intorno al 50% del Pil a prezzi correnti e impongono una pressione fiscale che non scende mai sotto i 42 punti. Cresce la spesa pensionistica e sanitaria (intorno rispettivamente a 250 miliardi e a 120 miliardi di euro) e gli interessi sul debito (poco meno di 100 miliardi di euro nel 2013), mentre diminuiscono le spese in conto capitale (non supereranno i 60 miliardi di euro).

Italiani campioni nella risposta al breve. Le incentivazioni straordinarie introdotte per risollevare la domanda depressa e rimettere in moto il circuito economico giocano sempre più sul fattore tempo, con scadenze a breve: dall’acquisto di nuovi beni durevoli alla possibilità di ampliare gli immobili in deroga agli strumenti urbanistici (il «Piano casa»), allo «scudo fiscale». Nella stessa direzione va la moratoria sui prestiti alle Pmi e quella sui mutui casa per le famiglie colpite dalla crisi promossa dall’Abi, così come la Cassa integrazione: nei primi 9 mesi dell’anno le ore autorizzate (ordinaria, straordinaria e in deroga) hanno superato i 622 milioni, con un aumento a settembre del 437% sullo stesso mese del 2008.

L’ordinaria normalità dell’emergenza. Sempre più gli italiani si concentrano sulle soluzioni di breve respiro, piuttosto che sulla programmazione a lungo termine. Un esempio sono i ricorsi al Pronto soccorso, aumentati da 61,4 per mille abitanti nel 2001 a 67,3 per mille nel 2007 (poco meno di 16 milioni di persone). Ma anche i ricoveri ospedalieri nei casi sospetti di influenza A/H1N1: 1.494 a ottobre rispetto ai 492 irlandesi, 447 francesi, 335 olandesi, 54 greci. O gli interventi d’emergenza della Protezione civile per calamità naturali, incendi, rifiuti, gestione dei grandi eventi, traffico, patrimonio artistico, nomadi, aumentati dai 290 del 2002 ai 310 del 2009.

L’eccitazione comunicativa nella permanente esposizione ai media. Tra il 1992 e il 2008, a fronte di un incremento medio dei consumi delle famiglie del 20%, la spesa per telefoni e servizi telefonici ha registrato un aumento del 214% (poco meno di 22,7 miliardi di euro nel 2008), segnando una flessione solo nell’ultimo anno; la spesa per prodotti audiovisivi e computer è aumentata del 63%, sebbene sia in rallentamento dal 2007; i consumi di libri e giornali hanno segnato un +38%. Il 47,6% degli italiani usa un numero di media superiore a quattro, muovendosi con facilità ogni giorno attraverso una fitta trama di messaggi veicolati dai più diversi vettori: non solo la Tv, il cellulare, la radio e i quotidiani, ma anche Internet, web Tv, palmari, lettori mp3, e-reader. Il 4,2% ne usa dieci o più, percentuale che raddoppia tra i soggetti più giovani e più istruiti. Si finisce così per dedicare massicce dosi di tempo ai mezzi di comunicazione. Se si sommano i quantitativi medi di tempo trascorso quotidianamente utilizzando i principali media, risulta un ammontare cumulativo «virtuale» di 13 ore e 54 minuti al giorno.

La violenza di prossimità nel vissuto quotidiano. Il conflitto sociale si è trasferito dalle piazze ai cortili. In un decennio si sono dimezzate le ore di sciopero, si riduce il numero di cause civili presso gli uffici del Giudice di pace e i tribunali (-9% tra il 2004 e il 2007) e le tensioni sociali non si incanalano in forme organizzate, ma prendono la via del conflitto privato nella dimensione domestica o condominiale. La microconflittualità nei condomini è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni, soprattutto per motivi futili, con ai primi posti l’utilizzo di parti comuni e i rumori molesti. Così come aumentano le violenze familiari (dai 97 omicidi in famiglia del 1992 si passa ai 192 del 2006, +98%).

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