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Di cosa si occupava Di Adriana Libretti
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L’ho conosciuto all’inizio dell’inverno e da allora non l’ho mai dimenticato. Forse ho semplicemente un debole per certi uomini. O forse il pensiero di lui in questi giorni punge di più solo perché è appena ricominciato un ennesimo, interminabile inverno. Ben si occupava di asparagi. Di zucche, carote e patate. Si occupava di tuberi e radici. Ma non aveva niente a che fare con la terra. Non l’aveva mai lavorata in vita sua. Ne parlava, tutto qua. Era il suo argomento preferito. Gli piaceva perdersi nei dettagli. Descrivere il tragitto di radici che affondano, di cime che sbucando vanno incontro alla luce. Forse perché aveva passato tanto tempo sotto, nelle grotte, altra sua passione di gioventù. Forse perché aveva vissuto con un ‘sadu’ in una specie di caverna. La prima volta che l’ho incontrato stava consumando il pranzo, dopo una settimana di digiuno. Raccontava che il gusto gli si era affinato e che il suo palato percepiva ogni minima sfumatura. Diceva anche di sentirsi vecchio, di essere dispiaciuto del fatto che su questa terra si vive troppo poco, si riesce solo a guardarsi appena intorno. -La vita media di un alieno è di quattrocento/cinquecento anni. Però conosco una terrestre, una bellissima donna nata più di sessanta lune fa, che si nutre di luce e proprio per questo dimostra meno di trent’anni. Intanto però lui continuava a mangiare e anzi, non smetteva di riempirsi il piatto. Patate soprattutto, andava pazzo per le patate al forno. Quelle là, guarnite anche con cipolle, erano una vera delizia. Lo ascoltavo, sarei rimasta lì per ore ad ascoltarlo. Ma ad un tratto si era alzato e non era più tornato indietro. Non mi aveva salutato nemmeno. Mi era passato l’appetito, me lo ricordo. Mi ero messa a fissare il vuoto come una stupida e a farmi domande. Non so perché tutto questo continui a venirmi in mente con tanta prepotenza da invadermi il cervello. Penso a lui e basta. Eppure non si può dire che sia un amico, non ci vediamo da tanto. A volte i pensieri vanno dove vogliono e non riesco a fermarli. Anch’io, come Ben, vorrei viaggiare e perdermi e magari non lasciare tracce. Sono stata in giro parecchio negli ultimi anni, dovrei averne abbastanza. Invece quando resto ferma oltre un certo periodo di tempo, sento salire un’inquietudine che mi chiude la gola. Ho bisogno di muovere le mani, mi prudono. Non è desiderio di picchiare, ma voglia di stringere, credo. Allora, afferro con decisione falce, accetta e via. Vado nei terreni abbandonati, nei boschi, ovunque ci siano cose che sono verdi o che lo sono state. Taglio strisce di prato, rami, arbusti; faccio covoni alti e poi do fuoco. Guardo le fiamme finché non si spengono; impedisco al falò di dilagare. D’incendi ne ho visti scoppiare un’infinità: sono molto pericolosi. Seppellisco per bene le braci e finalmente trovo un po’ di pace. Spesso, sulla via del ritorno, costruisco progetti per il futuro, ma dopo che sono entrata in casa, scopro di averli già dimenticati. Mi resta come una sensazione di viaggio concluso, che posso permettermi di archiviare. Quindi l’attesa di una nuova avventura diventa meno urgente, aspetto ancora e intanto il tempo passa. L’importante è far passare il tempo, dopotutto. Ben è solo. Io sono sola. Non se ne lamentava, lui. E tantomeno io. Quando nasce da una scelta, la solitudine diventa quasi magica. Vivo attimi di felicità che non saprei restituire a nessuno. Indicibili. Indimenticabili. E poi comunque ci si perde sempre, prima o poi, nella vita. E se non ci pensa la vita, ci pensa la morte: non ha senso cercare di trattenere qualcuno. E’ stato Ben a insegnarmi a mandare messaggi telepatici; per quanto mi riguarda però, mi sembra che la faccenda non funzioni. Per fortuna ho avuto anche l’occasione d’imparare il trucco per dipingere ad occhi chiusi sulla mia ombra, per trasformarla in una chiazza uniforme, senza spigoli. Spiegando, Ben diceva: - Così passano tutti i dolori. E’ vero infatti; questo sì che mi riesce bene. Ora che conosco la tecnica non ho mai una fitta, né una palpitazione o un malessere passeggero. Non ho più niente. Di mattina lavoro. Lavoro precario, d’accordo, ma meglio di tanti altri. Rispondo al centralino. Di pomeriggio tiro fuori le carte, studio itinerari, prendo appunti su cose che ancora non ho visto e forse non vedrò. Sono molto presa. Di sera imparo lingue, mi documento, m’impegno in esercizi complicati, faticosi, estremi. Articolo scrupolosamente le parole. Di notte ripasso intere frasi con lentezza, sempre attenta alla posizione della lingua. Mi guardo allo specchio per controllare. Mi trovo cambiata. Rispondo con maggiore professionalità e competenza anche al centralino. Certo, essere in grado di usare la telepatia mi avrebbe fatto comodo. Forse però mi daranno comunque l’aumento. Sono brava. Detesto essere fraintesa, piuttosto taccio. La settimana prossima inizierò il digiuno, voglio soltanto bere. Ho bisogno di lucidità, leggerezza. Presto mi occuperò di fisica e orientamento spaziale. Sarò molto presa. ... Ma cos’è? …Accidenti, il citofono! …Il citofono?! Non suona quasi mai! - ...Chi? ... Come??? ... Allora funziona! Ho imparato, funziona! Dice che è qui. Che ha voglia di vedermi. - …Mi fa piacere, ma in questo momento non posso, scusa. ... - ... Sì, sono molto presa. La sua voce!... Sua, sua! - ... Aspetta. Mi senti? …Ti apro. Sta salendo le scale... Bussa! - …Eccomi, arrivo! Accidenti. Accidenti a te. Temo che dovrò stringerti, Ben: mi prudono le mani.
(Da “Incontri di stagione. Miniature”, Zephyro Edizioni, Milano) Argomenti: #racconto Leggi tutti gli articoli di Adriana Libretti (n° articoli 29) |
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