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Anno VI n° 3 MARZO 2010 TERZA PAGINA |
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Novant’anni e cinquantaquattro giorni
Di Beatrice Buscaroli
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Paul Guillaume Mi ricordo del professor Giovanni Anceschi, ormai vecchio ma luminoso e implacabile, attento, con gli occhi umidi e l’attenzione ferina, alle lezioni del corso di specializzazione in storia dell’arte dell’università di Bologna, che spiegava, citando Popper, di come ci si “innamorava del problema”. E non avevo idea, né della filosofia alla base del problema, né dell’eventuale risoluzione. La risoluzione non c’è. Scienza o non scienza. Filosofia o biografia. Ti “innamori” di Amedeo Modigliani e dovresti arrenderti. Invece vai avanti, ma la risoluzione non c’è. Paradossalmente Modigliani resta un problema. Scrivo questo testo per una mostra che coincide con l’inaugurazione del nuovo spazio della Galleria d’Arte Moderna di Gallarate, a una settimana dalla pubblicazione di una biografia su Modigliani da me curata per il Saggiatore. L’ “autore”, come ti chiamano gli editori, e Dio li ringrazi per usare ancora una parola che dà al mondo un’idea di “aggiungere”, si penserebbe esaurito, risolto, compiuto, in quel che, quali che siano le sue possibilità, ha fatto. Invece no. Il libro è “uscito”, e quindi ci si dovrebbe fermare, è fatto, va sui tavoli dei giornalisti… Modigliani non lo spieghi mai. Né ti spieghi l’ostracismo di novant’anni (e cinquantotto giorni dalla morte, 24 gennaio 1920) di storia dell’arte sbagliata che l’hanno mal spiegato, mal venduto, mal trattato. Nonostante le cifre che le sue opere possano aver raggiunto, nonostante la fama universale e la apparente ma fatua popolarità, che poggia su luoghi comuni, fastidiose leggende, aneddoti. Modigliani è stato maltrattato nel senso reale della parola. Dov’è Modigliani nella storia dell’arte, in Italia o in Francia? Perché lo conoscono tutti per quel che non era? Per quel che appariva? Ubriaco, drogato, donnaiolo, irrisolto. L’irrisolutezza di Modigliani è la sua risposta al crepuscolo del novecento. Alla fine delle arti come codici antichi. Alla fine dei linguaggi in quanto tali. Modigliani sta, suo malgrado, sul confine maledetto delle avanguardie e della tradizione, dell’Italia che finiva nell’arte e dell’Europa che nasceva nell’arte, dei riguardi e dei traguardi della tradizione, della scuola dell’accademia, sta lì, con una biografia troppo stretta e una fama incontrollata. Sta sopra questa frattura drammatica e poliedrica che comprende l’arte e le sue ragioni, il ruolo dell’artista del novecento, due guerre mondiali, il divorzio dalla forma, il dissidio tra la forma e il senso. Da italiano bohèmien, apparentemente povero ma quasi sempre mantenuto dalla famiglia lontana, nella Parigi che volta il secolo. Coi suoi completi di velluto, lisi ma affascinanti, il suo fazzoletto al collo, tra Picasso e Apollinaire, nella città che decide le sorti del nuovo secolo.
Chi sia Modigliani è difficile dire. E dirlo comunque è già un errore. L’opera di Modigliani è un fragile e brevissimo equilibrio che si compie tra l’aspirazione alla scultura e l’approdo alla pittura, tra l’amore dell’arte antica italiana che stava rinascendo e rinasceva sotto gli occhi di tutti, e l’urgenza veloce delle avanguardie che scalpitano sotto i suoi occhi, proclamando progetti completamente opposti ai suoi. Trentamila artisti, diceva il pittore Alfonso Bucci, vivevano a Parigi in quegli anni, “l’esercito di Annibale”. Cubismo, fauvismo, futurismo, dada. Troppo in fretta. Amedeo recita Dante, interi canti a memoria e ama Carducci e Pascoli. Cubismo, fauvismo, futurismo, dada: F. T. Marinetti gli chiede se vuole firmare il Manifesto del 1909: Modigliani dice di no, non ne aveva nessuna ragione. Eppure è amico di Gino Severini e di Carlo Carrà, li vede e li frequenta, divide giorni e notate con loro. Anche loro sono in cerca di una forma. La loro appare, subito trascinata dalla straordinaria adunata che Marinetti accolse dietro di sé, con Umberto Boccioni, anche lui a Parigi. Alle pareti dello studio, o, per meglio dire, degli innumerevoli studi che cambiò, uno dopo l’altro, nel peregrinare senza pace che fu la sua vita, ha appeso riproduzioni dei capolavori di Lotto e Veronese, Perugino e Botticelli, Tiziano, Correggio, Andrea del Sarto. Nelle chiese, da bambino, guardava Tino di Camaino; nei musei, da ragazzo, contemplava Carpaccio e il quattrocento veneto…Le avanguardie gli scivolano intorno: la sua idea è un’altra, molto più simile, in questo, a quel che sarebbe divenuto il cosiddetto “ritorno all’ordine”, la riscoperta, cosciente, orgogliosa e nazionale che ogni paese faceva della propria arte antica. Oggi tanti studi stanno sottolineando l’importanza del rapporto con la tradizione italiana: “Botticelli moderno” lo definì Margherita Sarfatti. La sua idea dell’arte contempla l’eternità. L’eternità si raggiunge con la scultura. Modigliani non è mai andato a scuola di scultura. Ha frequentato disordinatamente corsi di accademie e innocui maestri di provincia, ha perlustrato l’ultimo refolo della pittura italiana, allievo di un allievo di Giovanni Fattori. Ha guardato, visto e sperato. Sempre “pensando” all’ “opera”. Le lettere giovanili a Oscar Ghiglia, suo conterraneo e compagno di studi all’Accademia di Belle Arti a Firenze, raccontano a quale altezza volasse il suo pensiero e il suo “sogno”. Sopra ogni realtà possibile, ogni acquisizione tecnica, ogni cognizione appresa, c’era “l’idea dell’opera” che avrebbe dovuto mettere a tacere tutti, dai dottori che non volevano scolpisse ai detrattori che lo compativano quando tornava a casa di notte, a Parigi, completamente ubriaco. La contraddizione, assoluta e dolorosa, tagliente come una scheggia, domina interamente tanto la vita quanto l’opera di Modigliani. La scissione è completa: non studia ma vorrebbe fare lo scultore, rinuncia alla scultura e dipinge da scultore. Da scultore aspirava a realizzare un “Tempio”, immutabile e senza tempo, nei mesi e nei giorni in cui il concetto di “durata” dell’opera d’arte mutava il suo significato per sempre. Il primitivismo è un mezzo e non un fine: a differenza di tutti gli altri che frequentano i musei d’arte “negra”, il suo intento non è quello di sperimentare culture diverse per accedere alle eccentricità oceaniche alla Gauguin: vuole toccare il linguaggio universale e comune, la semplicità ferma dei progenitori accarezzando la perfezione compiuta del rinascimento italiano. Abbandona la scultura nel momento stesso in cui comincia a raggiungere qualche risultato: è il periodo in cui chiacchiera ai Giardini del Lussemburgo con Anna Achmatova, la poetessa russa. La porta a visitare la sezione egizia del Louvre, la acconcia come una antica scultura e la ritrae. Sempre gli rimase quello che la figlia Jeanne, prima e tuttora indispensabile biografa, chiamò “il rimpianto struggente della scultura”. Quasi l’avesse abbandonata per ragioni indipendenti dalla sua volontà, quasi ne fosse stato costretto. I polmoni malati, l’assenza di una cultura tecnica profonda che assecondasse le idee, l’incapacità di conciliare tensioni opposte e vibranti tra passato e presente. Eppure il nostro e il secolo appena trascorso hanno tributato al Modigliani scultore onori che questi non avrebbe mai neppure immaginato. La vicenda delle teste false recuperate dai fossi di Livorno nel 1984 ha sancito come fatto critico un altro degli aspetti contraddittori della figura dell’artista. Oggi, che è passato più di un quarto di secolo da quello che cominciò come uno scherzo e finì come uno scandalo mondiale, ci si può serenamente chiedere il perché il fior fiore della critica italiana abbia scambiato per “capolavori” i risultati della burla. Qui sta il problema. Il fatto che la totale assenza di cultura e qualità nelle opere recuperate venisse scambiata per arte compiuta (addirittura la “migliore”) è il problema di Modigliani scultore. Un artista come lui avrebbe dovuto essere giudicato per quello che davvero si proponeva di fare e che considerava compiuto: il giudizio sulla sua scultura non poteva ancora adoperare le categorie novecentesche della fine delle forme e della rottura con la tradizione. Per questo distruggeva regolarmente le sue sculture e per questo quel che resta del Modigliani scultore contiene l’ombra dell’equivoco, indipendentemente dal fatto che alcune delle sue opere maggiori siano conservate nei principali musei del mondo. “Lo vedo come fosse oggi”, scrisse lo scultore Jacques Lipchitz, “chino sulle sue teste, assorto a spiegarmi che le aveva concepite come parti di un insieme. Mi sembra che queste teste siano state presentate poco dopo (…) disposte a scala come le canne di un organo per meglio esprimere quel senso musicale che egli desiderava”. A metà degli anni cinquanta, ricordò l’amica e modella polacca Lunia Czechowska, esisteva un numero di falsi dipinti di Modigliani che corrispondeva al numero totale di quelli da lui eseguiti. A lei, soltanto amica e modella, venivano continuamente chieste expertises di opere nuove… Sono passati altri sessant’anni, e il cosiddetto “mercato” ha raddoppiato, moltiplicato, chissà, centuplicato il numero delle opere a lui attribuite. Più passa il tempo e più la possibilità di reagire con studi e cataloghi seri a questa marea montante e nefasta sembrano fallire. “Lavorava rapidamente perché il suo lavoro era preceduto da un’approfondita riflessione. Il suo istinto di psicologo lo induceva a fare innanzitutto un’inchiesta sotto forma di conversazione sul carattere del suo modello, la qual cosa richiedeva un tempo più o meno lungo. Ma una volta presa la decisione, concepito il suo ritratto, lavorava di getto” (Léopold Survage). Il rigore della sua idea, che solo nella pittura raggiunse lo scopo che si era prefisso, deve tuttora scontrarsi con tutto questo: la leggenda incontrollabile sulla vita, una pletora di opere false, una posizione critica incerta, una patria mancata nella storia dell’arte. La sua incursione nel mondo delle arti fu solitaria e non ebbe eredi. Il suo stile crebbe e maturò faticosamente tra rinunce ed errori. Ma fu unico e inimitabile. Modigliani vagheggiava l’Italia antica e la sua altezza, la sua compiutezza, il suo riuscito equilibrio. Giuseppe Ungaretti scrisse che “la sua originalità era in questo equilibrio tra l’ossessione e la calma, tra la forza e la debolezza, tra la decomposizione e l’entusiasmo”. Cedeva disegni in cambio di un bicchiere d’assenzio, ma non vendette mai il suo “sogno”, quello di cui parlava ragazzino nelle sue lettere. Altri l’hanno fatto. A noi e a chi viene dopo di noi dovrebbe toccare il compito di onorare il suo testamento spirituale. Ci spetti il lavoro di ridisegnare vita e opera entro un profilo preciso come il suo, “unito e continuo”, diceva René Paresce, eliminando le scorie di novant’anni di errori, aneddoti, leggende, falsi, bugie, sistemazioni arbitrarie, per rispettare un artista a cui mai l’Italia ha restituito quel che da lui ha avuto. Il mistico profano - Omaggio a Modigliani Fondazione Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Silvio Zanella Via De Magri 1 21013 Gallarate Dal 20 marzo – al 19 giugno 2010 |
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