Stefanino ha trovato un cuore tra le macerie. E' corso da me stringendo, tra le sue mani di bambino, una pietra grigia e ruvida come le mattinate della tendopoli a fine agosto: un sasso a cui il vento ha dato la forma di un cuore.
Facciamo un arcobaleno, ho proposto ai bambini, facciamolo con le uniche cose che abbiamo a disposizione: sassi, colori e fantasia. E tempo libero, tanto.
Nella tendopoli le giornate sembrano non avere fine e il 'campeggio', così l'ha chiamato un buontempone dal fresco della sua villa, non è affatto attrezzato per l'intrattenimento.
Tutto, dal sei aprile duemilaenove, ha un sapore diverso: anche il tempo che scorre incredibilmente lento, quasi a voler fare un dispetto a chi non ha più modo di impiegarlo.
Tutto viene visto con una luce diversa e con una patina sottile di polvere e ricordi che ricopre L'Aquila, Villa Sant'Angelo, Onna, Paganica e tutti i paesi ormai abitati solo da gatti randagi.
Anche i palloncini che appendiamo nella nostra tenda, la tenda dei bambini, possono rivelarsi un triste ricordo della tragedia.
Le sciabole, i bassotti e i cuori di plastica che prendono vita dal mio fiato e dalle mie mani, vengono accolti con gioia dai miei 'aquilotti'. Ma se uno solo di questi palloncini scoppia, per le temperature roventi che ammorbano il nostro campo base, è il panico.
"U tarramut!" urlano grandi e piccoli, portandosi le mani in faccia e guadagnando immediatamente il centro del piazzale, chiedendomi: "E' una botta, Silvia, è arrivata un'altra botta?".
Un abbraccio e la paura passa, almeno per il momento...poi ritorna prepotentemente: quando passa un muletto che fa tremare il terreno, quando qualcuno corre, quando la luce si spegne all'improvviso, quando un temporale si avvicina schiacciando il cielo sul Gran Sasso, per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.
Mettiamo da parte i palloncini, che portano colore e paura, e iniziamo a lavorare con le scatole di riso vuote e fragili che cadono giù con un soffio, in cui i bambini rivedono le loro case sbriciolate.
Decidono di metter su una città di cartone, i miei piccoli costruttori con l'accento abruzzese, quelli che la notte del sei aprile, alle 3.32, non ridevano. "Dovete tornare a salutarci prima di Dicembre", ci dice Arianna, nove anni, "perché poi arriva un'altra scossa e noi non ci saremo più".
Le promettiamo di tornare presto e dopo venti giorni il mal d'Abruzzo ci riporta nella tendopoli di Villa Sant'Angelo, giusto in tempo per vedere le ruspe che buttano giù quel che resta della casa di Arianna, segnata da una X rossa.
Abitazione classificata con la lettera E: completamente inagibile.
E' settembre e la mattina i bambini escono dalle tende col grembiulino e lo zainetto e si trascinano, già stanchi, verso lo scuolabus che li porterà nella loro scuola-container.
Ci diamo appuntamento alla tenda della mensa e ogni mattina i nostri pigiami si confondono con le divise degli alpini e della protezione civile. Nel frattempo, Paola, mentre prepara la colazione al suo bambino canta "Lascia ch'io pianga", che ci dà la scusa ufficiale per piangere, e sogna di poter inserire "No potho reposare" nel repertorio del suo coro, per suggellare anche musicalmente la grande amicizia tra il suo Abruzzo terremotato e la mia Sardegna.
"Cosa vorrei, adesso, io che ho tutto?", mi chiedo, mentre guardiamo dall'alto del Gran Sasso, L'Aquila con le ali tarpate dal sisma.
Vorrei un ponte, ecco cosa vorrei: un ponte che da Sassari porti dritto a L'Aquila.
Perché questa è casa molto più che casa mia.
Perché qua ho fatto i conti con la vita, con la morte, con me stessa, gli altri e i miei sentimenti. Perché qua ho capito che la tua casa non è dove hai le radici, non è una tenda di plastica blu, non è neanche un prefabbricato di legno o la grigia stanza di un albergo sulla costa abruzzese. No, la tua casa è il posto in cui ti senti veramente te stesso, come in pochi altri luoghi accade. E Villa, ora, è casa mia.
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