Settimana all'insegna del cercar di capire cosa è successo alle elezioni, con, al termine della settimana, solo qualche diversivo da non sottovalutare. Tutti i partiti hanno detto di aver vinto, ma le preoccupazioni emerse dimostrano che questo non è vero.
Un fatto significativo: i risultati hanno dato ragione ai sondaggi. Ciò vuol dire che tutto quello che è stato detto e fatto negli ultimi quindici giorni nella campagna elettorale, che non è stata normale, ma messa in atto come una sceneggiata con pochi protagonisti, non ha cambiato quasi nulla.
Vediamo alcuni punti che caratterizzano questo risultato:
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chi ha vinto ha vinto in genere con ampi margini, solo nel Lazio e nel Piemonte vi sono stati dei testa a testa;
- i veri vincitori sono Lega e Italia dei Valori e i “grillini”, cioè coloro che hanno sempre tenuto una linea precisa e chiara;
- emblematici i risultati negativi di Castelli e Brunetta.
- I votanti sono stati solo il 63,6%. Un italiano su tre non ha votato. Con un assenteismo di queste dimensioni non si può certo dire che questi politici di oggi rappresentino gli italiani.
Ma chi ha vinto e chi ha perso in realtà?
Se l'assenteismo è aumentato dell’ 8% è evidente che solo chi ha aumentato la sua quota percentuale in modo significativo può dire di aver vinto, quindi in testa alla lista troviamo il Movimento stelle di Beppe Grillo, che, da assenti, sono entrati di prepotenza nei gruppi politici significativi, poi i due gruppi “estremisti” Lega Nord e Italia dei Valori... altri non ne vedo.
I due gruppi di riferimento PD e PDL hanno perso certamente consenso: per il PD questo era già evidente alle elezioni europee, mentre quello del PDL è stato un crollo in queste elezioni, dopo due anni di “buon governo”.
Anche il centro ha perso.
Ecco che si pone un quesito esistenziale: i sondaggi dicono che gli italiani amerebbero un centro moderato. Però i partiti che gravitano attorno al centro perdono: che senso ha tutto questo?
Un senso c'è l'ha: il centro moderato che gli italiani chiedono non è quello che s’immaginano e sostengono i politici, ma qualcosa che sta all'opposto, appunto alle estreme.
Si pone quindi la necessità di capire meglio il significato di “moderato”, che evidentemente per i cittadini italiani non è quello di “pippotto sempre in piedi”, senza idee di sviluppo e di rinnovamento, che siede costantemente sulle sedie della politica e, per restare al potere volge il suo volto a destra o a sinistra a secondo delle convenienze, azione che enfaticamente chiamano “aderire al programma”.
Forse l'italiano medio chiede idee precise di governo, affidabilità dei politici, che devono attuare queste idee e non usarle solo come degli enunciati propagandistici. La moderazione sta nel modo di raggiungere gli obiettivi; si chiede cioè di non stravolgere, di non fare rotture inutili, ma di operare per aggiustamenti, anche dolorosi dove occorre. È il cambiamento che deve essere moderato!
Forse la Destra ha vinto perché ha deciso: ha scaricato il centro di Casini e ha puntato sul “rinnovatore” Bossi.
Forse il PD non ha contenuto le perdite perché è rimasto strabico tra gli alleati credibili alla sua idea di governo, Di Pietro, Vendola, la Bonino, per rincorrere il mito della “Balena Bianca”, mito che sopravvive solo nella testa di qualche ex DC e di qualche ex PCI, che, se sono così nostalgici, sarebbe ora andassero definitivamente in pensione, invece di intralciare la politica attuale.
Forse chi non va a votare é un “moderato” e lo fa perché non ha fiducia di nessuno e nessuno cerca di conquistare la sua fiducia. Stranamente c'è una coincidenza numerica tra la stima di chi vorrebbe un partito moderato e chi non va a votare.
Un altro punto, come già anticipato, viene ad essere messo in discussione: è il ruolo della TV nella formazione dell'opinione nell'elettorato.
A cambiare i risultati elettorali non sono servite le continue presenza di Berlusconi nelle TV, certificate dalle sanzione dell'AGCOM o la entusiasmante diretta multimediale di Santoro. Un ulteriore conferma dell'inutilità politica della presenza in Tv l'abbiamo dalla sonora sconfitta dell'onnipresente Castelli, ex ministro e vice ministro, cui i suoi concittadini hanno preferito un sindaco più “terreno” e presente sui problemi locali. Credo che la sconfitta di Brunetta sia invece da attribuire alle troppe “ciacole” e ai pochi fatti realizzati da colu che sembrava il rinnovatore della burocrazia, che l’hanno reso meno “affidabile” del candidato di centro sinistra.
E adesso?
La domanda si pone con forza. Il PD continuerà la sua peregrinazione alla ricerca di un “anima comune” e di un ruolo che mai ha avuto e il confronto con i contigui vincitori sarà difficile e drammatico se non si decide di cambiare in toto la classe dirigente e ad abbandonare strategie insulse.
Per il PDL, la situazione è invece diversa e, in qualche modo, peggiore. Berlusconi pretende al volo le riforme e anche Bossi le pretende. Peccato che la parola riforma abbia significato diverso per i due leader.
Per Berlusconi riformare vuol dire bloccare le intercettazioni e impedire ai giudici di giudicarlo, e questo fa fatto di corsa anche senza raggiungere improbabili accordi con l'opposizione.
Per Bossi riformare è il tanto sbandierato federalismo, in 15 anni di potere, mai realizzato. Una volta sembrava averlo raggiunto, ma il “diavolo” ci ha messo lo zampino, e nel minestrone preparato con attenzione dai leghisti, ci ha messo il “peperoncino” del presidenzialismo, voluto da Berlusconi e Fini. Così il tutto è stato bocciato, prima dalla minoranza e poi dal referendum.
Bossi non vuole certo correre ancora questi rischi, quindi non vuole che bizze e capricci uccidano nuovamente la sua creazione; sa che ci vuole pazienza e accordo con l'opposizione, che non è contraria a discutere e a trovare soluzioni insieme. Sarà difficile mediare tra queste due impostazioni.
Però mi viene un dubbio sull'idea che la Lega ha di “federalismo”. L'idea dei macro-stati di Miglio è tramontata da tempo; oggi si parla di rafforzamento dei poteri regionali, cioè avere più potere dove i leghisti sono forti. Che questo possa portare a strutture più snelle, efficienti e meno costose è molto dubbio, visti i costi giganteschi degli apparati regionali. Sembrerebbe più che si passi dalla “Roma ladrona” alle “Torino ladrona, Milano ladrona, Venezia ladrona, Firenze ladrona... e via così.
Le difficoltà da affrontare e le idee confuse che albergano nella testa dei leghisti su questa panacea le possiamo misurare sui recenti fatti relativi alla RU486, dove le boutade dei due neo-presidenti Cota e Zaia. mostrano di pensare ad offerte sanitarie regionali, diverse non solo nella qualità dei servizi, ma anche sui contenuti. Un esempio, la sanità leghista nega l'aborto e quella “comunista” lo liberalizza, seminando così il caos e il pendolarismo sanitario; un pendolarismo tragico come abbiamo potuto sperimentare già nel caso di Eluana Englaro.
Insomma queste elezioni ci mostrano una politica fortemente delegittimata, sempre più lontana dalla realtà, anche dove i partiti hanno un forte legame col territorio.