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 Anno VI n° 4 APRILE 2010    -   TERZA PAGINA



DIMENTICARE

Di Annamaria Francese


Il cortile era pieno di sole. Qualche indumento, steso su una corda tesa attraverso due alberi, un fico e un arancio inselvatichiti, ondeggiava al leggero vento che portava fin là l’odore del mare. Uno sguardo intorno rivelava una campagna arsa, pietre un po’ ovunque e alle spalle la montagna sotto la quale correva il viadotto.

La Calabria è una strana terra, sa essere bellissima lungo le sue coste e sui monti innevati, lungo i ruscelli che scivolano gorgogliando tra boschi verde scuro e poi ti costringe alla vista di brutte costruzioni affastellate le une sulle altre lungo un litorale disordinato e selvaggio. Qui, in questo cortile in mezzo alla campagna,a mezza costa, né vicino al mare, né troppo lontano, la vita scorre con la lentezza e la consuetudine di un luogo dimenticato.

E Jureta era venuta proprio per dimenticare. La donna anziana, ma forse meno di quanto il suo aspetto lasciasse pensare,sfaccendava nella vecchia cucina umida e con l’orecchio attento al borbottio dell’acqua sul fuoco.

“Ta ta, tatata, ta…”

Il suono delle voci la fece sobbalzare come sempre

“Ta, tatà, taratà…”

Si affacciò sul cortile e i bambini si allontanarono correndo.

Oggi non c’era scuola ed era una splendida giornata, ecco perché i loro giochi erano cominciati prima del previsto. Jureta non sopportava i loro giochi. Le avevano detto che i bambini italiani non giocano quasi mai alla guerra, preferiscono il pallone, le figurine e i videogiochi. Questi ultimi però scarseggiavano e le figurine lasciavano il tempo che trovavano.

E poi loro non giocavano alla guerra, o meglio, si, ma si trattava di guerre spaziali. Solo che quelle misere mitragliette di plastica cinese facevano un rumore infernale che a Jureta sembrava ricordare sempre “quella” guerra.

Era venuta a dimenticare, Jureta, e a cercare pace, ma quei campi brulli, quella vecchia casa e le voci dei bambini che parlavano un dialetto stretto che lei non capiva, le sembravano uguali ad altre voci, ad altre grida. Perfino l’odore del mare che arrivava fin lassù era lo stesso. E così tutto diventava più difficile.

Lei faceva le pulizie in un ristorante sulla costa. Ogni mattina percorreva un chilometro per raggiungere il bivio dove passava la corriera, era sempre circondata da quei ragazzini che facevano chiasso e spesso la prendevano in giro e in tutto quel rumore il silenzio della sua anima era immenso.

Alla sua terra, alla sua casa , o meglio, a quello che ne era rimasto, non pensava più. Ma nel buio della notte, quando la sua compagna, quella con la quale era venuta in Italia e che viveva con lei, dormiva, allora con gli occhi aperti vedeva passare immagini che avrebbe voluto cancellare.

Si avvicinava la Pasqua e Jureta era cattolica.
Ricordava la festa nella sua patria prima della guerra. Vedeva volti di bambini sorridenti, lei stessa era poco più di una bambina e ascoltava nel ricordo le voci di sua madre, di suo fratello Jovan e degli altri commensali. La tavola era allegra, fiorita, il cibo sempre troppo poco, ma buonissimo. E un suono di campanelli che suo padre appendeva ai rami dell’albero grande fuori della porta.

In questi giorni il vento portava ricordi, belli e maledetti, sui quali era inutile chiudere gli occhi perché la assalivano a tradimento, perfino nel mezzo di una giornata di lavoro, perfino quando ascoltava gli ordini e rispondeva con un cenno della testa. Il suo silenzio si riempiva di immagini e più tentava di scacciarle, più tornavano in frotte come stormi di rondini straniere.

E in quella bellissima giornata di sole, in quel cortile estraneo eppure così uguale, il profumo del cibo era profumo di nostalgia.

Il grido la colpì destandola dal suo passato. Un grido di dolore di bambino,un grido che sembrava venire anch’esso dal passato.

Corse fuori e vide il piccolo Giuseppe a terra che si reggeva la fronte con le mani mentre il sangue colava abbondante e sporcava le mani e la maglietta sdrucita.

Allora l’urlo di Jureta riempì il cortile e interruppe anche il pianto del bambino. Tutti gli altri ragazzi che gli stavano intorno guardarono terrorizzati la vecchia che si era precipitata sul bambino sollevandolo da terra e stringendolo al petto. I suoi occhi erano persi nel vuoto, sbarrati e la sua voce quasi senza suono ripeteva senza tregua un nome “Marko, Marko, Marko.

Intanto era giunta la madre del bambino che guardando il figlio capì subito che si era trattato di un leggero incidente di gioco. Si avvicinò alla donna in ginocchio e le mise una mano sulla spalla. “Non è niente, Jureta, solo un graffio, non preoccuparti è cosa da poco…”

Ma lei non ascoltava. Continuava a ripetere” Marko, Marko…”e si capiva che non stava più là. Vedeva altre vie, un altro cortile, un altro bambino e sangue, tanto sangue su quel piccolo corpo senza vita.

Ci volle del tempo prima che Jureta tornasse in sé. Poi si alzò, nel silenzio di tutti questa volta, e si avviò verso casa. Gli altri la seguivano con lo sguardo, consapevoli di avere assistito a qualcosa di terribile e di ignoto.

All’interno della cucina Jureta si accasciò su una sedia, si prese la testa tra le mani e lasciò che le lacrime silenziose le scendessero in grembo. Era stato tutto inutile. Aveva lottato per dimenticare, ma non aveva saputo cacciare indietro il suo ricordo peggiore.



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