REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno VI n° 4 APRILE 2010 FATTI & OPINIONI


Discorso al Convegno a Palazzo Marini
Fini: "La Quinta Repubblica: un modello per l'Italia?"
In vista delle annunciata riforma istituzionale Fini analizza il sistema francese e le mette a confronto con le esigenze dell’Italia


Autorità, Signore e Signori!

Una delle tendenze di fondo delle democrazie moderne consiste nella ridefinizione delle funzioni legislative parlamentari e del ruolo della legge nel sistema delle fonti.

Ciò in conseguenza di una serie di fattori, tra i quali il progressivo trasferimento di competenze statuali a nuove forme di governance su scala non solo comunitaria, il rafforzamento dei poteri normativi degli esecutivi e lo spostamento del fulcro della decisione politica in direzione del governo rispetto alle assemblee parlamentari, i processi di “deterritorializzazione” dell’autorità politica, la tendenza degli interessi legittimi ad autorappresentarsi, la diffusione, in settori che incidono sui diritti fondamentali dei cittadini, di autorità amministrative munite di potestà normativa, l’autoproduzione di regole giuridiche, spesso di rilievo internazionale, da parte degli operatori economici del mercato globalizzato.

Tutti questi fenomeni sono oggi causa di un progressivo svuotamento di contenuto delle tradizionali forme di governo parlamentare che, per compensare in parte la perdita di “peso politico” patita dalla funzione legislativa e per preservare una loro centralità nei sistemi costituzionali, tendono a potenziare altre funzioni, a cominciare da quelle di garanzia e di controllo.

Anche in Italia, ovviamente, si avverte da tempo l’esigenza di realizzare un migliore e più funzionale equilibrio costituzionale tra ruolo del parlamento e ruolo dell’esecutivo e, a tale riguardo, l’esperienza della Quinta Repubblica francese continua a rappresentare, senza alcun dubbio, uno dei principali modelli di riferimento su cui a fasi alterne si concentra il dibattito sulle riforme istituzionali.

Ne è prova il fatto che alcuni tra i più autorevoli esponenti della nostra dottrina costituzionalistica e politologica hanno ipotizzato, sia pure con accenti differenti, modifiche del nostro sistema costituzionale secondo il cosiddetto “modello francese”, inteso soprattutto come una razionalizzazione del sistema parlamentare con un correlativo rafforzamento della capacità decisionale dell’esecutivo.

Da questo punto di vista, va subito detto che l’ordinamento fondato dalla Costituzione del 1958 va considerato come modello non per la sua origine e per le vicende che l’hanno preceduto, bensì per l’intera esperienza costituzionale che ha generato e che è segnata, nel corso dei suoi 50 anni di vita, da molti cambiamenti anche di carattere sostanziale.

Basti considerare che l’ultima, profonda revisione costituzionale del luglio 2008 (legge costituzionale n. 724 del 23 luglio 2008) ha recepito gli esiti di un ampio dibattito, sviluppatosi a partire dagli anni ’80, sulla necessità di riequilibrare, nei processi di elaborazione delle politiche pubbliche e nella verifica del loro effettivo impatto sulla realtà economica e sociale, il ruolo del Parlamento rispetto a quello dell’esecutivo,

Quindi, il maggior pregio della Quinta Repubblica, quello che dovremmo cercare di “importare”, è proprio quello di aver garantito la vitalità, la lunga durata di un sistema, o meglio di una “diarchia flessibile” (secondo l’espressione di Giovanni Sartori), che, tenendo conto delle tradizioni e delle mutevoli esigenze del Paese, ha saputo sempre “riconciliare”, anche con modalità ed effetti differenti, da un lato, la rappresentanza con l’efficienza e, dall’altro, il parlamentarismo con la leadership.

Come è noto, una riforma influenzata dal modello francese venne proposta dalla Commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Alema, con il testo del 4 novembre 1997. Quel testo fu oggetto di critiche, in particolare perché ai più appariva estranea all’esperienza italiana l’idea stessa di un Presidente della Repubblica organo di direzione politica più che di garanzia, tanto che non mancò da parte del relatore del tempo (on. Salvi) l’idea di attenuare le innovazioni del “semipresidenzialismo” con adattamenti che consentissero di adeguare il modello francese alla tradizione istituzionale e parlamentare italiana.

Nei tredici anni trascorsi da allora, il tema della revisione costituzionale della forma di governo è rimasto attuale, ma l’urgenza di affrontarlo, soprattutto alla luce dei profondi cambiamenti introdotti dal Titolo V, continua a scontrarsi con una discussione pubblica viziata da una certa stanchezza culturale e da non pochi pregiudizi di carattere politico.

A mio avviso, le nuove riforme, anche di carattere fiscale, in tema di federalismo e il sempre più forte trasferimento di competenze e di quote di sovranità in favore di organizzazioni sovranazionali hanno rafforzato, rispetto a 13 anni fa, la necessità di trovare piena ed equilibrata corrispondenza nella revisione costituzionale della forma di governo.

Se il federalismo rappresenta una risposta adeguata al crescente processo di internazionalizzazione, in quanto – secondo il principio di sussidiarietà – affida compiti importanti di tutela dei diritti e di garanzia dei servizi ai governi regionali e locali, il principio di unità nazionale, attorno al quale si costruisce l’idea stessa di Stato, richiede un potere esecutivo in grado di assicurare la piena coesione interna del Paese e di dare una rappresentanza adeguata della Repubblica sulla scena internazionale. Del resto, è questa la lezione più significativa che ci viene dalla Francia il cui semipresidenzialismo, dopo le recenti riforme costituzionali, non ha più il medesimo “significato” di quello voluto dal Generale De Gaulle nel 1958 e nel 1962.

Infatti, il Presidente della Repubblica, nella Costituzione del tempo, era disegnato per garantire soprattutto il governo interno e ripristinare la sovranità nazionale, mentre nella Costituzione vigente il Presidente è visto soprattutto come il rappresentante dell’unità della Francia nel mondo.

In Francia, l’attuazione di un marcato regionalismo interno, che è ben diverso dal nostro federalismo perché privo di potere legislativo, nonché la rappresentanza delle comunità territoriali all’interno del Senato nazionale e la cura degli interessi nazionali interni affidati, insieme al controllo amministrativo e al rispetto delle leggi, al rappresentante dello Stato centrale, danno il senso di uno scenario istituzionale nel quale si collocano in modo armonico i rapporti tra Presidente e Governo, per un verso, e tra Presidente e Parlamento, per l’altro.

Da sempre al Presidente della Repubblica francese competono due compiti principali di “magistratura di garanzia”, prioritari anche rispetto alla direzione dell’azione di governo, e cioè quello di garante del rispetto della Costituzione, in grado di assicurare, mediante le sue funzioni di arbitro, il regolare funzionamento dei poteri pubblici e la continuità dello Stato; e quello di garante della indipendenza nazionale, della integrità del territorio e del rispetto dei trattati. La sua funzione nell’ambito della direzione dello Stato è stata sempre caratterizzata, anche in epoca di piena sintonia tra la maggioranza parlamentare e l’orientamento politico del Presidente della Repubblica, da una concezione della democrazia di tipo parlamentare, come fanno chiaramente vedere le assonanze tra l’articolo 8 della Costituzione francese e l’articolo 92, comma 2, della nostra Costituzione sulla formazione del Governo.

Se si esamina il differente profilo del Presidente della Repubblica rispetto al solco della tradizione parlamentare, ci si accorge che le disposizioni costituzionali che lo riguardano hanno avuto un’applicazione singolare o limitata, segno evidente che le peculiarità del modello sono derivate da elementi strutturali del sistema politico-istituzionale più profondi, in primis, il comune sentimento repubblicano che abbraccia tutte le forze politiche che si sono susseguite al governo del Paese dalla fine della seconda guerra mondiale.

La stessa previsione dell’articolo 9 della Costituzione del ’58, in base alla quale “Il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio dei ministri”, ha avuto nella prassi un duplice funzionamento, nel senso che ha trovato ampia applicazione nel caso di uniformità di indirizzo politico tra Presidente e Parlamento, ma costituzionalmente ha taciuto nei casi di coabitazione, dando luogo, attraverso la delega al Primo ministro (art. 21), al più schietto e tradizionale funzionamento parlamentare della forma di governo.

Persino il peculiare rapporto che l’articolo 11 della Costituzione del ’58 instaurerebbe tra il Presidente e il popolo, grazie alla disponibilità del referendum come strumento legislativo o di ratifica, ha avuto un uso molto limitato e ha fatto sentire il suo peso solo in occasioni veramente storiche come quella che portò alle dimissioni dello stesso De Gaulle o, di recente, come quella che cha causato l’arresto della ratifica del Trattato costituzionale europeo.

E’ peraltro evidente che il cosiddetto “semipresidenzialismo francese” presenta tratti e movenze differenti dal presidenzialismo statunitense, proprio poiché in Francia è al Governo, e non al Presidente della Repubblica, in quanto tale che spetta il compito di determinare e dirigere la politica nazionale. La naturale conseguenza è che la stessa cura della dialettica tra governo e parlamento è demandata al Primo ministro e ai Ministri.

Infatti, è all’esecutivo – e non al Presidente della Repubblica – che sono riconosciuti particolari poteri nella procedura parlamentare; lo si comprende chiaramente dalle modifiche apportate dalla legge di revisione del 2008: si pensi alla irricevibilità delle proposte di risoluzione (art. 34); alla possibilità di adire il Conseil constitutionnel (art. 39); alla limitazione del potere di emendamento, per ragioni finanziarie (art. 40) e per il rispetto del dominio riservato alla legge (art. 41), sino alla opposizione del governo alla presentazione di emendamenti in aula (art. 44) e alla possibilità di richiedere “le vote bloqué” (art. 44). Ed ancora, si pensi alla priorità della richiesta del governo di iscrizione all’ordine del giorno dei “progetti di legge finanziaria e di finanziamento della previdenza sociale” (art. 48).

Ne discende, pertanto, che il terreno più proprio di svolgimento del mandato presidenziale è quello della salvaguardia della Costituzione e dell’unità della Repubblica, nonché quello esterno della rappresentanza internazionale e della politica estera ed europea, della quale il Presidente della Repubblica francese è il diretto artefice.

In questo ambito si situa anche il suo rapporto dialettico e privilegiato con il Parlamento, grazie al regime dei messaggi e alla possibilità riconosciuta di recente al Presidente di intervenire personalmente di fronte al Congresso di Francia (il Parlamento in seduta comune) riunito a tal fine a Versailles (art. 18).

Ne consegue che la lettura corretta da dare alla riforma sulla riduzione del mandato presidenziale a cinque anni, in modo corrispondente alla durata della legislatura dell’Assemblea nazionale, e a quella recente sull’indicazione del numero dei mandati possibili, è ben diversa da quella di chi vede in queste disposizioni la risoluzione di problemi legati alla politica di governo della maggioranza parlamentare.

Infatti, non è possibile valutare compiutamente questi cambiamenti costituzionali senza considerare l’importanza del ruolo internazionale e di rappresentanza esterna del Presidente della Repubblica. Dal punto di vista prettamente politico, la riduzione del mandato presidenziale, fa pensare ad un Presidente della Repubblica che sia, al contempo, “capo” della maggioranza parlamentare e leader del partito (o della coalizione) di governo.

Tuttavia, il significato istituzionale di queste disposizioni risiede essenzialmente nella necessità di porre rimedio ai lunghi periodi di coabitazione, dal momento che l’incidenza negativa di questa non è stata tanto nella direzione dell’azione politica interna, rimasta ancorata al modello parlamentare di responsabilità del Governo, bensì sul versante della rappresentanza generale, atteso che le coabitazioni hanno causato soprattutto un depotenziamento del ruolo internazionale del Presidente.

Ciò detto, attraverso la riduzione del mandato presidenziale (e la quasi contemporaneità dell’elezione del Parlamento), con la conseguente pressoché sicura esclusione di forme di coabitazioni, viene garantita al Presidente francese proprio la possibilità di svolgere efficacemente il ruolo di garante delle istituzioni e di artefice della politica estera che la Costituzione gli assegna.

Un ulteriore riflessione va sviluppata in merito all’esperienza della Quinta Repubblica. Tradizionalmente il modello del semipresidenzialismo è stato considerato, non a torto, caratterizzato da un’attenuazione della supremazia del Parlamento.

Oggi, questa visione appare tuttavia non pienamente rispondente alla realtà costituzionale, dal momento che concretamente le riforme costituzionali francesi hanno puntato ad un rafforzamento del ruolo del Parlamento, soprattutto come sede di confronto con il Governo e di dialogo diretto con il Presidente della Repubblica.

Oltre a ciò, anche lo stesso procedimento legislativo ha visto un rafforzamento dei poteri parlamentari; si pensi, ad esempio, alla possibilità, per i gruppi parlamentari, di rivolgersi direttamente al Consiglio costituzionale.

La revisione costituzionale del 2008 ha poi apportato due ulteriori significativi cambiamenti: l’introduzione dello statuto dell’opposizione e l’adeguamento del ruolo del Parlamento ai compiti derivanti dal Trattato di Lisbona.

Il primo aveva già avuto un significativo riconoscimento nel 1974 con l’introduzione del ricorso diretto al Consiglio costituzionale da parte delle minoranze parlamentari, ma è con la recente revisione costituzionale che è stato rafforzato, “perché lo statuto dell’opposizione è una garanzia di una democrazia ineccepibile” – come ha detto il Presidente Sarkozy.

Quanto all’adeguamento del ruolo del Parlamento ai compiti derivanti dal Trattato di Lisbona, va ricordato che la Costituzione francese è stata la prima Costituzione nazionale ad essere modificata proprio per consentire al Parlamento di effettuare un controllo pieno sugli atti europei e sull’esercizio delle competenze dell’Unione.

Già dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il Parlamento francese ha infatti avuto il riconoscimento di un diritto costituzionalmente garantito alla comunicazione di informazioni relative alle iniziative dell’esecutivo in ordine alla partecipazione francese alle politiche europee; adesso, l’articolo 88 della Costituzione obbliga il Governo a sottoporre al Parlamento tutti i progetti e le proposte di atti dell’Unione europea.

Non è questa, ovviamente, la sede per approfondire ulteriormente l’analisi del modello francese nella sua organicità e nella sua complessità, ma appare comunque possibile qualche prima sommaria conclusione. Cosa mostra realmente la vicenda francese, della quale ho l’impressione - e qui faccio un inciso polemico - che da noi si parli sovente in modo troppo superficiale?

In primo luogo, che la capacità di mantenere la Costituzione vitale e di adeguarsi ai tempi è propria di quelle comunità nazionali che hanno un’appropriata coscienza di sé e che riconoscono nei valori costituzionali i valori maggiormente in grado di esprimere una sovranità forte e una democrazia salda e dinamica; in questo, la Costituzione della V Repubblica è certamente un ottimo esempio.

Tuttavia, nella situazione italiana odierna si ravvisano molti punti di similitudine con l’esperienza francese, ma anche significativi profili di difformità.

Per quanto il dibattito sulla forma di governo possa ricalcare quello francese che portò alla transizione dalla IV alla V Repubblica, nel caso italiano – per fortuna – mancano quegli elementi di rottura e di minaccia della sovranità nazionale da cui derivarono le decisioni costituzionali francesi del 1958 e anche il contesto in cui si inserisce un’eventuale revisione della forma di governo italiana oggi è profondamente diverso da quello degli anni ’50 e ’60, quando l’esperienza europea era solo all’inizio.

È per questo che il confronto tra la nostra realtà e quella francese è proficuo solo se condotto in modo scientifico, cioè sulla base dello sviluppo storico e della realtà costituzionale dei due Paesi, e attraverso una seria comparazione dell’organizzazione dei poteri dello Stato e degli equilibri che devono intercorrere tra di essi.

Certamente le riforme italiane dovranno tenere conto della diversità, rispetto alla Francia, del nostro sistema politico-costituzionale e delle caratteristiche proprie delle esperienze istituzionali della nostra storia nazionale.

Ma se si guarda a Parigi è certo che le esigenze cui la revisione della forma di governo deve fare fronte sono assai simili a quelle che hanno indotto la Francia ad una estesa innovazione costituzionale che ha riguardato in modo armonico modalità di elezione e poteri del Presidente della Repubblica, ma anche contestualmente riordino del Parlamento, sue modalità di elezione (cioè, legge elettorale, perché non si può ragionare del modello francese prescindendo dalla legge elettorale), sua funzionalità e partecipazione ai processi di decisione europea, sua capacità di garantire il principio di unità dell’azione politica e la salvaguardia degli interessi nazionali nelle sedi internazionali, principi che nell’ordinamento transalpino sono legate alla posizione costituzionale del Presidente della Repubblica.

In estrema sintesi: la V Repubblica può essere un modello per l’Italia, ma solo nella piena consapevolezza che un’adozione del modello francese non organica e di sistema, ma parziale o peggio ancora amputata di alcuni suoi fondamentali meccanismi di equilibrio e di garanzia, rischierebbe di non rispondere positivamente alle reali necessità del nostro Paese.

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