Mi chiamano Nuccio da sempre, anche se il mio nome per intero non c’entra niente con Nuccio.
Sarà che ero un bambino gracile e Nuccio in qualche modo dà l’idea di piccolo.
A sei anni la direttrice della scuola di via Carlo Dolci disse a mia madre d’iscrivermi alla Casa del Sole, una scuola con tanti padiglioni costruiti in un parco, dove mandavano i bambini sottopeso come me.
Dovevo prendere il tram della Casa del Sole, uno di quei tram verdi che facevano il servizio apposta per i bambini; ci impiegavo un'ora ad andare, una a tornare.
Abitavo in zona San Siro con la mia famiglia, composta da nove persone, compreso me. Saremmo stati anche di più, ma due Attilii di seguito morirono in fasce, finché mia madre decise di non mettere più quel nome a un figlio. Era una grande famiglia del sud, sfollata a Milano come tante altre.
Quando a Milano nacqui io, l’ultimo della serie, cominciarono a darmi il latte comprato dalla lattaia sotto casa però purtroppo, siccome piangevo sempre, scoprirono che la delinquente lo allungava con l'acqua.
Era una tipa che, durante la guerra, aveva commerciato col Mercato Nero.
Fu denunciata e non la vedemmo più.
Dopo la fine della guerra continuava il coprifuoco e, quando in casa si dovevano spegnere tutte le luci, cominciavo: “Accendi la candela... accendi la candela... accendi la candela!”.
Mi prendevano in braccio, però non c’era verso di farmi smettere con ‘sta manfrina, sfinivo tutti e mi sfinivo anch’io.
Nel giro di qualche anno morirono, un mese dopo l'altro, mio padre e uno dei miei fratelli più grandi.
Ricordo la mamma sempre col fazzoletto in mano per asciugarsi gli occhi.
Mio fratello era ricoverato per un brutto male, così era chiamata quella malattia allo stomaco.
Era stato mandato in Germania quando Mussolini aveva fondato la Repubblica di Salò.
I ventenni dovevano scegliere se andare a combattere contro gli anglo-americani, o se in Germania a lavorare. Quando tornò non sapeva parlare il tedesco ma se la cavava con l'inglese e trovò subito lavoro alla Banca Commerciale; peccato che la cosa durò poco.
A mio padre venne un infarto e morì in qualche istante; mio fratello morì il mese dopo in ospedale.
Ero ancora piccolo ma ricordo l'atmosfera triste di casa mia.
L'unica cosa bella era che mia madre mi prendeva spesso in braccio per coccolarmi mentre piangeva.
La nostra casa si trovava in mezzo ai campi e ogni prato aveva il suo nome; c'era il prato di fronte, il prafro’; il prato di destra, il prade’; e di sinistra, il sinistrello. Andavamo anche nei cortili; quello del sei, del due e del 18; oppure all'oratorio dei frati.
“La devi finire di prendere le mie cravatte!” mi dicevano spesso i miei fratelli maggiori, perchè quello che lavorava alla Alfa Romeo vestiva mica male, e l'altro, che aveva appena cominciato a fare il rappresentante di utensileria, cercava di tenersi in ordine pure lui. “Non fare il solito egoista! Non vedi che non ho cravatte?”, gli dicevo, ma tutto finiva lì. Interveniva subito mia madre e loro, come me, avevano soggezione di lei, così cadeva il silenzio e le cravatte restavano nell’armadio. Tanto le andavo a prendere dopo, di nascosto.
Crescevo bene e mi irrobustivo, anche perché nel frattempo, mia sorella maggiore, la cantante della Fonit Cetra, sì proprio lei, cominciò a esibirsi alle feste di quartiere e, dopo avere vinto il concorso alla EIAR, fece una discreta carriera. Non sfondò perché sposò un toscano, più esattamente un pisano, orgoglioso e ambizioso che mangiava sempre bistecche e io, siccome andavo spesso a pranzo da loro, diventai molto più alto dei miei fratelli.
Noi tre, io, Nene e Salvo che (odiando quel nome) si faceva chiamare Renato, eravamo i più giovani e avevamo una vita a parte, tutta nostra. Il fratello che lavorava all'Alfa Romeo, e l'altro, il rappresentante, si sposarono presto.
Proprio mia sorella, la cantante sposata col pisano mangia-bistecche, regalò una chitarra a Salvo-Renato e lo mandò da un bravo maestro della EIAR. Lui, che era un suo vecchio corteggiatore, si prese a cuore quel ragazzetto “serio e studioso”, almeno così diceva il maestro. Gli insegnò molto bene lo strumento, anche perché capì che avrebbe imparato in fretta. Diceva che Salvo poteva suonare anche l’elenco del telefono.
Salvo-Renato andò a finire in Colombia con un complesso italiano, facevano musica Sud Americana. Quando tornò, dopo due anni, mi raccontò che aveva rischiato di essere ammazzato.
Una sera era uscito dal locale dove suonavano ed era stato derubato di tutti i suoi strumenti, con la minaccia di un “machete” sul collo.
Negli anni sessanta la Polizia di Stato Colombiana praticamente non esisteva. Non c'era ancora lo spaccio di cocaina, ma i civili rapinavano e ammazzavano a tutto spiano, specialmente chi veniva dall'estero.
Quando lui e i suoi amici-colleghi del complesso tornarono, girarono per tutta l'Europa. Suonarono in Spagna, Svizzera e Francia. Furono scritturati da Josephine Baker, la negretta col gonnellino di banane che veniva dal Sud America e adottava gli orfanelli (ne aveva più o meno una decina). Ebbe molto successo, la Baker, e lo Stato Francese le regalò un castello. Lei ne trasformò una parte in sala di registrazione e dancing e l'altra in dimora per lei e la schiera di orfanelli.
Dalla Francia mio fratello Salvo-Renato mi scrisse. Più esattamente devo dire che la lettera era indirizzata a mia madre: le consigliava di mandarmi a lezione di contrabbasso.
Da quel giorno capii cosa avrei fatto da grande.
Avevo studiato di malavoglia, dicevo di andare a scuola invece vagabondavo per la città. Cercai d’imparare un mestiere, però mi pagavano talmente poco che un giorno mia madre telefonò all’accordatore di pianoforti presso il quale lavoravo da qualche mese e gli disse di arrangiarsi, la sua elemosina non mi serviva.
Fu grande la mia gioia quando comprai il mio primo strumento; un vero contrabbasso con l'archetto. Imparai subito. Il bagno di casa era il mio locale di studio preferito, per via dell'acustica.
Andai col complesso de “I Vesuviani”, un quartetto formato da chitarra ( mio fratello Salvo-Renato), basso (io che sostituivo il Gianni, che non voleva più girare), pianoforte e batteria, in Francia, dalla Josephine Baker.
Avevo diciassette anni, dovevo imparare a vivere. Ero sempre stracotto di qualche ragazza francese e mai nessuna s’innamorava di me. Eppure non ero da buttare via.
Al ritorno dalla Francia, cominciai a frequentare la Galleria del Corso. Là c’erano le Case Editrici Musicali, dove si riunivano i musicisti in cerca d’ingaggi.
“I Vesuviani” si erano sciolti ed io lavorai parecchio in un paio di altri complessi.
Il locale più importante in cui suonai fu il Charlie Max, sotto l'Arengario, in piazza del Duomo. Ci venivano i VIP come Gianni Agnelli, il principe Juan di Borbone, ed altra gente importante di quei tempi. Ci vennero perfino i Beatles, accompagnati dal loro Agente della Apple in Italia.
Sono successe tante cose, dopo. Il boom economico, le varie crisi…
E’ passata una vita e oggi non sono cero un uomo gracile, anche se mi chiamano sempre Nuccio. Anzi, sono forte, ma i miei ricordi cominciano a sbiancarsi come i capelli, ecco perché li ho messi giù per iscritto.
Anche adesso che ho un’età continuo a suonare, eh sì non posso farne a mano, ma preferisco non aggiungere altro a queste righe, almeno per oggi.
Il pensiero della vecchia guerra, di tutte le guerre che ci sono ancora nel mondo e della rivoluzione mancata degli anni sessanta, quando la radio trasmetteva “Mettete dei fiori nei vostri cannoni” e altre canzoni del genere, mi ha fatto venire la luna per traverso. Per non parlare di quello del petrolio nell’Oceano e di mille altre robe da voltastomaco. Già, gli anni passano, le persone care ci lasciano e le schifezze no.
Lo so, le canzoni non bastano, però io alla musica ci ho sempre creduto. “Ma penso che questa mia generazione è preparata a un mondo nuovo e una speranza appena nata…”, cantarono “I Nomadi” al Cantagiro del 1967.
Rimettiti a suonare, va’ Nuccio.
Strimpella che magari ti si raddrizza la luna.
disegno di Angelo Ruta www.angeloruta.com
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