REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N 8 |
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Anno VI n° 6 GIUGNO 2010 - TERZA PAGINA Scritto per Pino Pedano |
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L’albero fu iniziazione: indispensabile e anche sofferta, da cambiarti la pelle molte volte. Il legno ne porta la memoria, indelebile, e ne incorpora i segni. Le rughe e le cicatrici, i nodi e le gore, le vene e le giunture – le passioni turgide e dolorose del tempo vissuto – sono pacificate. Il legno incorpora l’essenza di una iniziazione riuscita, conciliata in se stessa, saziata dagli anni. La sezione concentrica dell’albero-legno rispecchia le età del mondo e le orbite del cielo, in sovrapposizione perfetta. Il taglio non le patisce più, le rivela, a qualsiasi altezza, come nella trasfigurazione del corpo destinato a nuova vita. Esse si imprimono lungo l’asse della sua verticale – la prima postura eretta della storia dei viventi! – in cui le onde pulsanti della vita che si espande sulla terra rivelano la loro segreta corrispondenza con le orbite circolari della musica delle sfere. È come la scala di Giacobbe, l’albero-legno. Ci sono cose, fra terra e cielo, che passano dall’albero-legno. I suoi manti frondosi hanno temperato il fuoco e rigenerato l’aria, per noi (non per caso, l’albero-legno è il più pronto ad esporsi per noi alla carezza del fuoco che consuma e a salire verso il cielo, confondendosi col vento). Le sue radici hanno reso morbida la terra e governate le acque, offrendo frutti e decori dei quali non c’è traccia, a perdita d’occhio, nella sterminata volta di stelle e pianeti che ci osservano: e guardano, qui, ciò che ancora non hanno visto altrove. Noi chiamiamo “tronco”, la verticalità della nostra immagine, e “colonna” il suo asse portante, che ne custodisce la linfa vitale. La sala delle colonne, l’assemblea degli uomini eretti, concentrici al luogo in cui si addensa il sacro – luogo di epifania e di nascondimento, luogo di separazione e di tangenza fra cielo e terra – sono metamorfosi del cerchio degli alberi che proteggeva la radura e il villaggio, l’altare e il tempio, aprendovi vetrate di luce. Il legno custodisce archetipi. I geroglifici intessuti nell’arazzo misterioso delle fibre del legno raccontano l’intera storia del mondo, a chi la sa leggere. I paralleli e i meridiani della verticale e del cerchio non sono orbite celesti fredde e vuote. I colori del legno sono dolcemente bruniti del nostro incarnato, quando ha vissuto la prova della sua iniziazione attraverso il fuoco e l’acqua, la terra e il vento. Nell’infinita gradazione dei toni del corpo vissuto e scolpito dagli elementi, venature d’oro e striature di sangue fanno memoria, qua e là, della promessa di definitiva purezza che ne lampeggia, e delle passioni incandescenti che ne hanno affinato la grazia. Non è poi così difficile riconoscere, in questi geroglifici del corpo del legno, gli ideogrammi della storia dell’anima (che sempre si scrive nel corpo-mondo).
Pino Pedano si rivolge con gratitudine e rispetto al racconto del legno. Più che scolpirlo, se ne lascia colpire. Lo asseconda, con animo vergine (ma non ignaro: l’uomo conosce il doloroso passaggio dalla tragica imminenza del congedo alla grazia inattesa di una “vita nuova”). Pedano ha la pazienza del vero ascoltatore, la tenacia senza tempo del contemplativo autentico. È così che si merita le rivelazioni dell’anima del legno, che incantano anche noi. Entriamo così, anche noi, nel “giardino segreto”, in cui l’albero-legno offre i suggestivi incanti della sua seconda vita. L’ingrandimento dei dettagli mostra qui un continuum variegato, che si rinnova incessantemente e sconfina – letteralmente – all’infinito.
Non è scultura in legno, questa. Qui è proprio il legno che scolpisce te, semplicemente rivelandosi: non c’è intellettualismo dell’interpretazione che approfitti della vaghezza del segno, del vuoto della forma, dell’immaterialità del concetto. L’arte, qui, non si appoggia all’idealità dell’astrazione, per sottrarsi all’impaccio del corpo e lucrarne – presuntivamente – più libertà creativa dello spirito.
Il legno ripete, per la felicità della memoria, l’evidenza plastica delle sue metafore. Intorno all’inarrivabile compiutezza della “sfera perfetta” (Platone): la terra, la luna, la pura gioia del grembo, lo scrigno delle memorie, la gestazione della perla, la cavità delle metamorfosi. Lungo l’enigmatico azzardo della “canna pensante” (Pascal), la dolce curvatura che regge – senza spezzarsi – i suoi pesi maggiori e più preziosi: il grembo della generazione, la responsabilità del sacro, la gravità del pensiero. Nell’ultima fase, le gore oscure della memoria, le faglie del vuoto che si apre fra gli alberi, il profilo frastagliato delle loro giunture incompiute, virano verso la metamorfosi della trasparenza e dell’attesa. Transizione annunciata sin dall’inizio. Ma ora essa incalza, con sempre maggiore struggimento di approssimazione al compimento. Non più solo memoria di slabbrature incomponibili, di ferite non rimarginate, di tessiture rimaste irrisolte. Varco per la libertà, piuttosto: che riconosce, nell’impossibilità della sovrapposizione totale, il principio dell’individuazione. Filtro per la luce, che si concede solo alla molatura della carne, fino alla misteriosa trasparenza di un corpo spirituale. Senza questo azzardo, del resto, la speranza dell’anima si svuota degli affetti vissuti, e l’attesa dei corpi ricade inerte, senza più musica. Il piccolissimo alberello che congiunge la tavola superiore e quella inferiore del violino, restituendo al legno l’inconfondibile voce del suo canto ultimo, si chiama “anima”. Tutti coloro che ascoltano questo racconto del corpo e delle scritture del legno non hanno bisogno di domandare il perché.
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