ATTENZIONE  CARICAMENTO LENTO


Scritto per Pino Pedano

Il cantore del Creato: dal mito alla mistica


Di Giovanni Gazzaneo

    Solo per noi / vivono tutte le cose sotto il Sole
    Vicente Huidobro
    Dal momento che si ha nell’anima un punto di eternità,
    non rimane più nulla da fare
    se non preservarlo, perché cresca da sé come un seme
    Simon Weil
     
 

Pino Pedano, da sinistra a destra Elevazione, 2010, palissandro d?India, cm 280 x 34 x 8; Gli orologi, 1984, abete, cm 197 x 33 x 10; I soli di Draut, 1984, eucalipto e pino marino di Panarea, cm 210 x 30 x 9; Lacerazione, 1984, acero, noce, cm 210 x 37 x 9

L’orizzonte è tutto per un uomo, ancor più per un artista. Su quella linea ideale, che ha per centro colui che guarda, il cielo e la terra si incontrano. Su quella linea si giocano le nostre vite, i nostri pensieri, le nostre opere. L’orizzonte può immergerci nella bellezza o dissiparci nel vuoto. Cambiamo noi e cambia l’orizzonte. È accaduto anche a Pino Pedano. La sua ricerca è passata da un orizzonte mitico, che caratterizza la prima fase del lavoro, con sfere, piramidi, obelischi, a un orizzonte mistico, dove il disco e il totem assumono una valenza esplicitamente religiosa. E le sue figure primarie si aprono al mistero.

L’arte di Pedano, la purezza delle forme e dei volumi e la straordinaria levigatezza delle superfici delle sue opere, si offre allo sguardo ma anche al tatto e all’olfatto, in un linguaggio che unisce invece di dividere, un invito a contemplare non solo con gli occhi. Come pochi altri sa cogliere del legno le dimensioni visive, tattili e plastiche. La ricerca della forma è contemporaneamente un indagare le possibilità dello spazio e le relazioni che si possono instaurare tra l’opera e coloro che ad essa si rapportano. L’abilità dell’artigiano, la sapienza dell’ebanista e la creatività dello scultore in lui si incontrano e procedono insieme. E insieme indagano le potenzialità delle macchine di cui si serve, le risorse della natura, da lui vissuta come Creato, per offrirci un’opera che ci coinvolga totalmente. Pedano ci mostra la ricchezza della materia, le possibilità di espressione che la provocazione e il concettualismo dei ready made e del minimalismo sembrava aver cancellato. La solidità e il senso di durevolezza della sua opera si oppongono all’istantaneità della performance mantenendo la freschezza di un “qui ed ora” e insieme l’apertura all’Infinito, a ciò che va oltre l’immediato e l’apparenza.

Artigiano, artista, architetto. Pino Pedano è inseparabilmente tutto questo, nella sua straordinaria capacità di fare sintesi tra grande tradizione e innovazione tecnologica. Nei trentacinque anni di cammino creativo convivono in lui due anime: quella dell’invenzione e quella della scoperta. L’ebanista che modella la materia con maestria alla ricerca della forma perfetta, dell’intreccio geometrico che genera stupore, è lo stesso ebanista cosciente che l’idea sia già nel legno e debba essere solo distillata, ripulita da ciò che è in eccesso.

 

Pino Pedano, Terra di Sicilia / Icona, 1991, limone, radica di frassino, ciliegio, pioppo e cipresso, cm 94 x 94 x 7,5

All’inizio Pedano è soprattutto “architetto”, guidato da uno straordinario senso del volume: nelle sue prime geometrie c’è tutta la gioia di una creazione che si gioca nella selezione accurata delle essenze e nella serena ripetizione di moduli a ritmi serrati, di luci e ombre, di linee e colori. Un percorso che inizia in laboratorio. La perfezione non è solo il fine dell’opera di Pedano ma anche il modo di realizzarla: la macchina, perfetto automatismo per produrre ciò che è utile, viene posta a servizio di un progetto volto verso ciò che è perfettamente inutile. Opere che Luigi Carluccio definisce poeticamente: “Lisce come ossi di seppia, compatte come ciottoli di fiume, tenere e calde come colombe”.

Con il trascorrere degli anni prevale il cercatore attento, il cantore del Creato. In molti dei suoi lavori l’obiettivo di dare forma assume un’importanza secondaria rispetto al desiderio di trovarla in natura, di estrarre ciò che l’albero nasconde, ma è pronto a svelare a colui che ha l’ingegno e la manualità all’altezza della sfida. Intuito, passione e mestiere portano a sezionare al punto giusto per trovare preziosi intarsi nelle dense superfici di una radice, negli anelli di un tronco che si espandono a contare gli anni della prima vita del legno, perché la seconda, la vita nuova, è l’opera d’arte. Una vita senza tempo e oltre il tempo.

Pedano nell’“epoca della riproducibilità” utilizza per la sua arte un’intera officina tecnologicamente avanzata, mai l’antico scalpello, per forgiare pezzi unici e splendidamente inutili nella loro bellezza. Scopre come la regolarità astratta dovuta al processo standard di produzione possa avere come fine non solo l’utensile, ma anche l’oggetto artistico. Sceglie di destinare il processo di produzione alla creazione artistica. Il fine della macchina è ora la contemplazione: Pedano compie così una rivoluzione. E insieme chiude un cerchio e sana la frattura che la riproducibilità dell’opera d’arte senza limiti – grazie alle nuove tecnologie, fin dall’avvento della fotografia –, ha segnato rispetto a quel modo di fare arte che si era ripetuto nei millenni uguale a se stesso fin dagli albori dell’umanità.

Nell’“epoca della riproducibilità”, l’arte asservita ai sistemi di produzione viene svuotata di qualsiasi aura e ridotta a mero oggetto e può così rientrare in una visione puramente materialistica dell’uomo e del mondo. Walter Benjamin ne era ben cosciente: “Sarebbe errato sottovalutare il valore di queste [mie] tesi per la lotta di classe. Esse eliminano i concetti di creatività e di genialità, di valore eterno e di mistero. Concetti la cui applicazione incontrollata, e per il momento difficilmente controllabile, induce a un’elaborazione in senso fascista del materiale concreto… La riproduzione tecnica dell’opera d’arte è qualcosa di nuovo… Moltiplicando la riproduzione, essa pone, al posto di un evento unico, una serie quantitativa di eventi…”. Creazione, mistero, eterno: ecco i nemici che Benjamin vuole abbattere per spezzare il legame originario tra arte e sacro. La “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte – continuava – emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale”.
Pedano sovverte il sistema della riproducibilità e rivoluziona il mondo delle macchine destinandole a servizio del processo artistico, della creatività e della novità di cui l’uomo è capace, insomma di “quell’incontrollabile” novità che il genio dell’artista può offrire. Ci propone una scultura interiore, aperta al mistero della creazione: porta alla superficie l’anima del legno, la sua vita che non muore nonostante tagli, manipolazioni, trattamenti industriali.

 
Pino Pedano, da sinistra a destra: Spirito Santo, 2010, eucalipto, cm 255 x 24 x 8; Padre, 2010, eucalipto, cm 270 x 40 x 8; Figlio, 2010, eucalipto, cm 265 x 38 x 8
Realizza l’auspicio di Walter Gropius, fondatore della Bauhaus: la necessità di permeare la funzionalità tecnica con “un’idea spirituale”. Non c’è progetto né disegno nelle opere che Pedano realizza. La sua è una visione puramente mentale dell’oggetto, “un’idea spirituale” che si evolve man mano che le essenze prescelte vengono assemblate con la sola mediazione di squadratrice, carteggiatrice, pialla, tornio…

Dal connubio macchina e mente nascono le sue figure primarie. La materia si fa spirito grazie all’invenzione artistica, una materia viva e insieme completamente altra rispetto al dato di natura, dopo aver subito i procedimenti industriali di cui Pedano si serve per plasmare forme e volumi perfetti in un assemblaggio straordinario di essenze. Figure primarie e di estrema purezza che suscitano meraviglia e insieme hanno il sapore del gioco e della grazia.

Quando si entra nel laboratorio di Pedano, si comprende il significato delle parole di Nikolaj Berdjaev: “Solo a uno sguardo superficiale l’automazione appare come una materializzazione nella quale lo spirito muore. Questo processo non è un passaggio dalla più complessa materia organica alla più semplice materia inorganica. A uno sguardo più profondo, l’automazione deve essere concepita come smaterializzazione, come incenerimento della carne del mondo, come sfaldamento della struttura materiale del cosmo. La macchina di per sé non può uccidere lo spirito: essa, piuttosto, permette che lo spirito sia liberato dalla prigionia della natura organica”.

L’orizzonte di Pedano è sempre un orizzonte dell’oltre: oltre il design, oltre la scultura, oltre l’architettura.
In lui sono inscindibili la perfetta conoscenza delle tecniche di lavorazione apprese dall’età di sei anni e mezzo – quando al mattino frequentava la prima elementare nel suo paese natale Pettineo, nel messinese, e al pomeriggio si recava nella falegnameria di compare Adamo, suo padrino di battesimo – e il desiderio di misurarsi con nuove frontiere.
Fin da quando lascia la Sicilia per il continente: a 17 anni raccoglie le sue poche cose in una valigia di legno e si reca a Milano, la sua terra promessa.
Le nuove frontiere coincidono con le sfide: il lavoro da precario e le scuole serali per conseguire la licenza media e il diploma artistico, la sua prima bottega d’artigiano nel 1966 e l’impegno nella politica e nel sociale, l’invenzione del “Millefogli”, un metodo da lui brevettato per l’assemblaggio dei legni, e i primi oggetti di design, l’idea di un mobile bello, funzionale e alla portata di tutti, anche da montare a casa propria (mostrandosi un precursore…).

 

Pino Pedano nello studio, 2008

E poi la sfida più grande, quella con la malattia che lo porta alle soglie della morte. La guarigione immediata e inspiegabile, che attribuisce a padre Pio, apre un capitolo nuovo per la sua vita.
E l’artista si fa docile strumento nella consapevolezza che “l’arte non serve Dio, lo imita. E questa imitazione è la chiave della sua legge. Chi dice che l’arte imita la natura non la conosce. Essa imita la creazione, se si designa con questa parola l’atto di creare, essa riproduce il movimento del Creatore per fare come lui. Essa cerca di somigliare al Verbo”, secondo l’intuizione di Stanislas Fumet.

È la coscienza del senso della vita possibile solo nella dimensione del dono a stimolare in Pedano l’accuratezza con cui impagina le superfici: l’infallibilità grafica (a tratti persino pittorica) abile a sfruttare le venature della materia, il senso del ritmo oscillante tra pure corrispondenze e slittamenti asimmetrici, la capacità di respirare nelle pause dei vuoti, quasi mai creati artificialmente, ma ricavati dalla sapiente disposizione del legno o dai segni della malattia o delle ferite del tempo che Pedano ha la virtù di trasformare in bellezza e aperture sull’infinito, quasi un Fontana del legno.
È un dono acuito dall’esperienza della malattia e del miracolo, che permette di leggere la scrittura segreta delle piante, i geroglifici misteriosi delle superfici e di dare una nuova vita all’olmo ammalato e marcito sotto la pioggia, all’umile pioppo della pianura, all’essenza esotica. Perché del legno Pedano conosce gli intimi segreti, lasciandosi affascinare da quello straordinario miracolo che l’albero compie ogni giorno grazie alla luce: la trasformazione dell’inorganico in organico, della materia inerte in materia viva.

Nel cammino di Pino Pedano possiamo individuare tre momenti, ben illustrati in questa mostra.

 
Pino Pedano, Risveglio, 1992, mogano, pioppo, frassino, ciliegio, cm ø 230 x 7
La prima fase della sua stagione creativa è la ricerca di forme originarie, è l’utopia di archetipi senza tempo, in un mondo, quello degli anni Settanta, sempre più disordinato e in preda al caos: la sfera diventa l’icona della perfezione; la piramide viene assunta come segno della tensione verso l’alto, quasi a mo’ di sfida, simboleggiata dalla punta acuminata, a voler conquistare il cielo con la violenza; l’ovale, prima che un omaggio a Brancusi, è il simbolo della nascita.
Oggetti di raffinata ebanisteria che nella loro geometria mostrano la nostalgia per ciò che sembra irrimediabilmente perduto: una vita ordinata e carica di senso. Una scultura cosmopolita che si abbraccia nei morsetti, nelle colle e nel tornio in una geografia di essenze e colori senza confini. Pedano impiega palissandro, mogano, betulla, ciliegio, ebano, sequoia, acero, pioppo, bois de rose… legni pregiati e legni poveri, dell’Oriente e dell’Occidente.
Una scultura ecologica: per le sue opere non è mai stato abbattuto un albero, utilizza solo materiale di recupero.

Il secondo momento della fase creativa coincide con il soggiorno a Panarea. Nel 1984 riscopre il paesaggio, la possibilità di una nuova armonia tra l’uomo e la natura. Le sue opere vogliono ora raccontare l’albero e la sua storia. Non basta più la perfezione di geometriche sezioni, l’utopia archetipa cede il passo alla multiforme, e imperfetta, ricchezza della vita. La forma originaria che Pedano vuole proporre si fa carico delle ferite del tempo che hanno marchiato l’albero nella circolarità del suo crescere. Le sculture si elevano, assumono la forma di totem, si fanno frontali, offrono morfologie diverse, non hanno più nulla dell’ordine ideale delle prime opere ma lasciano trasparire i nodi e i buchi della storia.
La bellezza si fa organica, prevale lo stupore di fronte al Creato come dono. Per la gallerista Jeanne Facchetti “la scelta del totem rispetta la forma dell’albero ma aggiunge qualcosa al suo mistero e alla sua imponenza sovrana”.

 

Pino Pedano, Risveglio, 1992, mogano, pioppo, frassino, ciliegio, cm ø 230 x 7, particolare

Se le prime opere sono levigate a tutto tondo, prive di asperità, qui avviene la rivoluzione copernicana. Pedano coglie la bellezza e il mistero dei segni del tempo e, con l’acquisizione della dimensione storica, l’esigenza dell’uomo di elevarsi verso Dio: “Nei totem affiora il bisogno di spiritualità, un bisogno che vivevo solo come assenza: era qualcosa che mi mancava dentro”.
Con il suo ritorno all’arte nel 2006 dopo quasi quindici anni di silenzio, Pedano si scopre più che mai scultore del legno interiore e sceglie di dedicarsi all’essenziale, ogni altro problema è per lui un falso problema. Il suo orizzonte non è più vuoto, non acquista senso solo in nome della ricerca, ma è fondato da una Presenza. Nella materia scopre la grazia e l’eleganza, ricerca i paesaggi dell’anima: protagonista è ora l’uomo, la sua natura, il suo essere ponte tra cielo e terra.

L’occhio è la mano e la mano è l’occhio. Non c’è differenza, è tutt’uno. Perché il mio occhio è munito di un dono particolare che Dio ha voluto in me e trasfigura lo sguardo. Pone il suo occhio dentro di me perché possa vedere le cose trasfigurate e dipingerle trasfigurate”. L’esperienza di William Congdon è anche l’orizzonte in cui Pino Pedano vive la sua arte, soprattutto in questi ultimi anni.

Non è un caso che le sue ultime mostre “La Vita nuova”, nel 2006, e “Luce” nel 2008 si svolgano in luoghi sacri: l’Oratorio della Passione presso la Basilica di Sant’Ambrogio e la Chiesa Rossa a Milano.

Oggi, presso la Galleria d’Arte Sacra dei Contemporanei di Milano, “Orizzonte” ripercorre i 35 anni del suo cammino artistico: dalla prima opera, una sfera progettata nel 1967 per l’industria chimica, all’ultima, il dittico che dà il titolo alla mostra, terminato nel maggio 2010.

Culmine di “Vita nuova” sono le Maternità: cinque grandi totem, che rappresentano insieme gravidanza ed elevazione, sono presenti anche in Villa Clerici. La donna in attesa di un bimbo diviene l’icona di un’umanità che si riconosce nuovamente come creatura. E il rapporto misterioso di madre e figlio è insieme simbolo della creatura e della creazione: la dipendenza più totale (il bimbo cresce nel ventre della donna) e la gratuità senza confini (la madre si fa casa per un altro).

Dalle prime forme giocose della sfera e della piramide nella loro geometria perfetta di linee, colori e luci, segno di un’utopia irrealizzabile, si passa alla speranza, questa sì autentica, delle Maternità, della fiducia nella novità che ogni figlio porta nella storia. Ma non si può raccontare la verità sull’uomo senza aprirsi al divino. Oggi Pedano ci propone opere che narrano l’incarnazione, nel segno di una bellezza che apre ai misteri della vita, del creato, del tempo, del nostro essere nella storia e oltre la storia. Dal punto di vista stilistico sono molti i punti di contatto tra la scultura recente di Pedano e le opere precedenti. La differenza sta “dentro”.

La mia arte – racconta Pedano – è ora tutta rivolta al recupero delle nostre radici, perché ci liberiamo dalla paura e dall’isolamento a cui i falsi bisogni della società dei consumi ci portano e, spezzando tutti i legami con gli altri e con Dio, ci schiacciano nella solitudine e nella paura interiore. La grande libertà è riconoscere quel che siamo veramente, non quel che ci dicono di essere e di avere. Ho sperimentato la Grazia e ho capito che la grazia è sapere di essere amati, questo è il senso del nostro cammino”.

 
Pino Pedano, Porta del Paradiso, 2007, pioppo, radica di pioppo, cm 416 x 256 x 121
Nel percorso di “Luce”, segnato dai simboli della porta, del pane eucaristico e della croce, c’è il desiderio non di raccontare il mistero, impresa impossibile, ma di lasciarlo trasparire.
Come avviene nello squarcio di Luce, il grande disco: “L’opera è nata una mattina, durante l’elevazione eucaristica, l’ostia mi è apparsa immensa”. E il tema dell’Incarnazione e della trascendenza torna straordinariamente vivo nelle opere che Pedano ha realizzato per “Orizzonte”, a partire dai tre totem, di diverse dimensioni, che compongono Trinitas.
Qui siamo di fronte a un linguaggio essenziale, una povertà che vuol rinviare a ciò che è indicibile e non raffigurabile. La verticalità diventa totale apertura e la materia si fa icona. Le venature del legno sono il segno che rimanda al mistero: ascendenti a significare l’elevazione, per lo Spirito, discendenti a significare l’Incarnazione, per il Figlio.
Il Padre è indicato dalle ferite: una nube di segni lasciati dai tarli diventa simbolo della Gloria. “Passio – racconta Pedano – nasce da un’assa di olmo dell’Oltrepò pavese, in gran parte marcia e consumata, che custodivo da due decenni in laboratorio e che da un anno mi ritrovavo a guardare con rinnovata attenzione. Quando mi hai invitato a realizzare questa mostra ho visto in quel legno incarnarsi l’idea della Passione, nella sofferenza del legno, nei fori che minano la base, mi è apparsa la sofferenza di Cristo, la sua solitudine nei momenti decisivi prima nell’orto degli ulivi e poi sul Calvario. Nella grande ferita, che apre nella sommità il totem, ho intravisto la valenza salvifica del dolore e la speranza autentica che chiede allo sguardo di rivolgersi verso l’alto”.

In “Orizzonte” sono presenti i due volti della bellezza cristiana: il volto della gloria e il volto del dolore. Se così non fosse la bellezza si ridurrebbe all’evanescente falsità di uno spot o perderebbe se stessa riducendosi al grido di dolore e d’orrore di tanta arte contemporanea.

 

Pino Pedano, Passio, 2010, olmo, ebano, cm 245 x 43 x 8

Chi crede in Dio – diceva nel 2002 l’allora cardinale Joseph Ratzinger –, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocefisso come amore ‘sino alla fine’ sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli inoltre apprende che la bellezza della verità comprende offesa e dolore, anche l’oscuro mistero della morte… In questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva ‘sino alla fine’ e che si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo… L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza”.
Nella passione di Cristo c’è il superamento dell’estetica greca perché l’armonia e la perfezione delle forme hanno il fascino dell’utopia ma non sono in grado di scavare l’umano, di offrirci i suoi abissi e neppure quel pezzo di cielo che ci portiamo dentro, il più delle volte nella totale incoscienza.

Perché possiamo abbracciare tutto questo e cogliere la verità in noi stessi è necessario un passaggio, un andare oltre che Pedano ben rappresenta con la Porta del Paradiso. L’opera in legno di pioppo, nella sua monumentalità (è alta quattro metri e venti e larga due metri e cinquanta) introduce il percorso di “Orizzonte”.

Aprire e chiudere una porta sono gesti semplici, quotidiani. Eppure la porta è carica di significati: è passaggio tra l’esterno e l’interno, può aprire un mondo famigliare o comunitario, escludere l’altro o accoglierlo come ospite. La soglia si pone tra il mondo dei volti anonimi e gli affetti più cari ma anche tra la quotidianità profana e la sacra liturgia del tempio.
La porta è simbolo stesso, come il pane e la croce, di Cristo: come i grandi portali delle cattedrali gotiche, l’imponente opera di Pedano rimanda alla maestà del Figlio di Dio, la cui grandezza è la capacità di accogliere tutti, nessuno escluso. La Porta è l’invito a entrare in Lui per cambiare vita e orizzonte. L’invito ad andare oltre: oltre la quotidianità, oltre la logica del dare e dell’avere, oltre la paura. Lo stesso invito che ci rivolge Muro di preghiera, “parete forata, diaframma tra noi e l’infinito” come osserva Carlo Bertelli, un luogo dove riposare lo sguardo e la mente e far viaggiare lo spirito nell’armonia dei legni, delle sfumature, dei colori.

Nell’orizzonte della gratuità, in cui l’operare artistico si colloca, viene data espressione all’inesprimibile – il divino è colto nel linguaggio simbolico, che è sempre linguaggio dell’oltre – e trova risposta quella domanda di salvezza che agita il cuore di ogni uomo, la sete di grandi orizzonti, la sete di bellezza che è l’impronta del divino in noi. Una sete che ha alimentato l’opera di Pedano, fino ad abbracciare la grande lezione di Medardo Rosso: “Il limite è impossibile. L’infinito è naturale”. Come i suoi legni, la sua natura redenta dalle mani e dallo spirito.

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