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Ugo Ojetti (1871-1946)

Una ampia biografia di questo incredibile uomo di cultura, giornalista e artista che cambiò il modo di vedere la cultura tra nella prima metà del ‘900

Di Fabio Amico

Nato nel 1871 nella Roma da poco proclamata capitale del Regno d’Italia, Ugo Ojetti era figlio di un architetto e restauratore molto noto all’epoca, Raffaello, distintosi nell’ambiente romano per la costruzione di vari edifici di ispirazione rinascimentale, come la facciata del celebre Palazzo Odescalchi, oltre che per gli incarichi ricoperti in numerose associazioni culturali capitoline.

Cresciuto in ambiente cattolico e formatosi alla Scuola dei Gesuiti, stimolato dal padre all’amore per l’arte e per la storia, Ojetti intraprese inizialmente gli studi giuridici, laureandosi in legge nel 1892 e concentrando i suoi sforzi nella carriera diplomatica. Abbandonate però ben presto le ambizioni in tal direzione, cominciò con crescente entusiasmo a dedicarsi alle sue due grandi passioni: la letteratura e il giornalismo.

Già nel 1892 pubblicava la sua prima raccolta di poesie (Paesaggi) e l’anno successivo esordiva come narratore col romanzo Senza Dio. Contemporaneamente iniziò a collaborare con giornali e riviste come la «Nuova Rassegna», la «Tribuna», «Il Giornale», l’«Avanti!», «Il Resto del Carlino», «Il Marzocco», «Emporium», «L’Illustrazione Italiana», approdando nel 1898 al «Corriere della Sera», di cui diverrà una delle firme più prestigiose per quasi cinquant’anni, fino alla morte avvenuta nel gennaio del 1946.

Ojetti fece subito parlare di sé, agli esordi della sua carriera giornalistica, con un’iniziativa che animerà il dibattito culturale italiano per molti anni: un reportage letterario, pubblicato nel 1895 col titolo Alla scoperta dei letterati, condotto percorrendo l’Italia da Nord a Sud e intervistando i maggiori scrittori dell’epoca, Pascoli, Carducci, Fogazzaro, Verga, Capuana e molti altri, ma soprattutto D’Annunzio, per cui Ojetti provava un’immensa ammirazione, pur prendendo le distanze dai rischi retorici del dannunzianesimo.

La conclusione dell’inchiesta era lucida e allo stesso tempo provocatoria: la differenza di stili, origini, culture e ideali era tale da indurre Ojetti a constatare l’inesistenza di una letteratura che potesse definirsi autenticamente italiana, poiché mancava ancora al Paese un’anima italiana. Tale affermazione, destinata inevitabilmente a suscitare reazioni e polemiche, ben s’inseriva tuttavia nel dibattito politico-culturale postunitario, da cui emergeva chiaramente la necessità, raggiunta faticosamente l’unità politica, di lavorare alacremente per ottenere anche un’unità linguistica e culturale.

Questo primo periodo di impegno giornalistico s’intreccia infatti con gli anni della militanza politica di Ojetti tra le fila di un gruppo autonomo socialista in Umbria, terra d’origine della madre Veronica Carosi, che lo porteranno a partecipare alla fondazione del primo periodico socialista della regione, «La giovane Umbria», nonché a candidarsi alle elezioni amministrative di Spoleto nel 1896, senza tuttavia riuscire ad essere eletto.

Gli anni tra la fine del secolo e i primi del Novecento sono caratterizzati dall’intenso lavoro come inviato prima dall’Egitto, poi dagli Stati Uniti, da cui invia, oltre ai bollettini sul conflitto ispano-americano, anche delle analisi lucide della società e dei costumi americani, messi a confronto con la mentalità europea, poi raccolte in un fortunato volume intitolato “L’America vittoriosa” (1899), e in seguito anche dalla Norvegia, dalla Francia, dall’Albania e dall’Asia.
Parallelamente esordisce nel campo della critica d’arte con la pubblicazione nel 1897 del volume “L’arte moderna a Venezia”, che raccoglieva un ciclo di articoli apparsi su «Il Resto del Carlino» e con cui ottenne il secondo posto al premio per la critica della seconda Biennale veneziana.

Profondamente influenzato dalla cultura francese, dal positivismo di Hippolyte Taine alla critica sociologica di Jean-Marie Guyau, Ojetti riteneva che l’opera d’arte fosse la più importante manifestazione dell’individuo nella storia, pertanto un’arte veramente moderna avrebbe dovuto, a suo avviso, saper rappresentare l’essenza dell’anima umana ed essere in grado di comunicarla a tutti. Convinto assertore di una critica capace di rivelare l’anima degli artisti e non solo le caratteristiche tecniche e stilistiche delle opere, Ojetti suddivideva gli artisti presenti alla Biennale in tre categorie: pittori che pensano, pittori che sentono e pittori che non pensano e non sentono. Tale suddivisione portava a sottolineare la profondità di pensiero nella pittura di Whistler, ma anche la capacità di Segantini di esprimere il suo stato d’animo personale, il carattere lirico dei paesaggi impressionisti o le forme palpitanti delle sculture di Rodin.

Gli scritti sulla seconda Biennale veneziana svelavano al pubblico un critico attento, sensibile alle arti figurative, con uno stile accurato, ma non affettato, profondo, ma allo stesso tempo dotato di grande forza comunicativa, capace di riflessioni non estemporanee, ma elaborate alla luce di un metodo critico ben delineato, che Ojetti rese esplicito pochi anni dopo, pubblicando un testo programmatico che doveva definire i Diritti e i doveri del critico d’arte moderna (1901). Poiché egli attribuiva all’arte una funzione sociale necessaria, indispensabile, in quanto massima espressione di un’epoca e di una civiltà, ago della bilancia fra il sentire dell’artista e quello dello spettatore, il critico aveva il dovere di farsi tramite fra l’artista e il pubblico, acquisendo le conoscenze necessarie per comprendere le epoche e le tecniche, avendo poi la sensibilità per scorgere l’umanità racchiusa nell’opera d’arte e saperla comunicare allo spettatore.

Ugo Ojetti da “cronista”, come lui stesso amava definirsi, si occupava di arte, cultura, viaggi o politica, ritenendo prioritario scrivere per i lettori, non solo per gli studiosi e gli addetti ai lavori; da giornalista ‘prestato’ alla storia dell’arte, egli proponeva una critica d’arte intesa non a compiacere gli specialisti chiusi nella loro torre d’avorio, ma come strumento di valorizzazione della tradizione artistica nazionale. Fra i doveri di questa nuova figura di critico d’arte rientravano inoltre la valorizzazione delle arti applicate e lo studio dell’arte contemporanea, da ricollegare però sempre a quella antica, avendo come fine ultimo quello di “difendere e diffondere l’arte”.

Nel corso dei primi anni del ’900 la partecipazione alla vita pubblica di Ojetti si fa sempre più consistente: per la competenza e il prestigio acquisiti in campo storico-artistico diventa membro della Commissione Centrale per i Monumenti e per le Opere di Antichità (1905); successivamente consigliere effettivo del Consiglio Superiore di Antichità e Belle Arti (1912); ‘conservatore militare’ per la tutela dei monumenti durante la Grande Guerra; membro della commissione incaricata dal Ministero della Pubblica Istruzione della riforma dell’insegnamento artistico (1920); direttore, insieme a Pietro Toesca, della sezione “arte” dell’Istituto per l’Enciclopedia Italiana e poi membro del Consiglio direttivo fino al 1933; fino ad ottenere, nell’ottobre del 1930, la nomina ad Accademico d’Italia.

Nel frattempo continua a viaggiare, collabora con importanti riviste, tiene conferenze e pubblica il suo primo lavoro teatrale, “Un garofano” (1905), messo in scena da Ettore Petrolini.
L’evento più importante di questi anni riguarda però la sua vita privata: nel 1905 sposa Fernanda Gobba, figlia di un ricco ingegnere ferroviario piemontese; insieme decidono di stabilirsi a Firenze, in un primo tempo in una casa in via dei Della Robbia, successivamente, a partire dal 1914, in una splendida villa rinascimentale sui colli fiesolani, il Salviatino, fatta restaurare dallo stesso Ojetti e divenuta in poco tempo un crocevia d’incontri di scrittori, artisti, intellettuali e politici provenienti da ogni parte del mondo.
Nella sua dimora toscana, inserita in un contesto in cui arte e natura sembrano aver raggiunto un equilibrio e un’armonia ineguagliabili, Ojetti collocò le opere della sua pregevole collezione, che continuò ad arricchirsi negli anni e che è andata dispersa dopo la sua morte, collezione che comprendeva opere di scultura, pittura e arti applicate, spaziando dall’antico al contemporaneo, da Jacopo della Quercia ad Andreotti, da Poussin a Spadini, passando per Fattori, Lega, Gemito, Pellizza, per giungere ad artisti tanto amati come Bourdelle, Ghiglia, Casorati.

L’amore di Ojetti per l’arte trova la sua più convincente e compiuta realizzazione in questa ricchissima raccolta, che proprio nella sua varietà rappresenta pienamente l’idea ojettiana che non esistano le epoche e quindi una predilezione per qualcuna di esse, ma soltanto gli uomini e i valori rappresentati nelle opere. Un artista, fosse Giotto o un pittore contemporaneo, avrebbe dovuto, secondo Ojetti, saper «parlare a tutti, parlare franco, misurar le parole» e creare delle opere che rimanessero per sempre un «esempio di lealtà, di fede, di coraggiosa umanità» (Giotto, 1937).

Dall’unione con Fernanda Gobba nacque nel 1911 la sua unica e adorata figlia, Paola, che poi avrebbe avuto un ruolo fondamentale nel mantenere vivo il ricordo del padre, negli anni dell’oblio dell’attività ojettiana. Il 1911 fu un anno non solo di grandi gioie familiari, ma anche di successi professionali: l’organizzazione della Mostra del Ritratto in Palazzo Vecchio a Firenze, in occasione del cinquantenario dell’Unità d’Italia, e la pubblicazione della prima serie dei Ritratti d’artisti italiani, uno dei suoi libri di maggior fortuna.
La Mostra del Ritratto si rivelò un successo clamoroso di pubblico e di critica e contribuì alla rivalutazione di un periodo della storia dell’arte italiana, dalla fine del Cinquecento alla prima metà dell’Ottocento, allora poco conosciuto dal grande pubblico, attraverso un genere pittorico che secondo Ojetti costituiva una lezione filosofica, oltre che storica, poiché nel ritratto la storia appariva impersonata dagli individui.

A questo principio di fondo s’ispirava infatti anche il primo volume dei Ritratti d’artisti, dal titolo della rubrica tenuta sul «Corriere della Sera»: un libro con cui Ojetti cercava di studiare gli artisti italiani contemporanei con lo stesso amore e lo stesso rispetto con cui si studiavano gli antichi, presentando i profili di Fattori, Signorini, Bistolfi, Trentacoste, Tito e molti altri, di cui sapeva cogliere la “sincerità” dell’espressione artistica nella concretezza della vita quotidiana.

Il successo ottenuto con la Mostra del Ritratto, che era riuscita a riportare l’attenzione della critica e del pubblico su periodi allora trascurati della storia dell’arte italiana, indusse Ojetti negli anni successivi a formulare un programma di mostre biennali d’arte antica, che avrebbe dovuto portare Firenze a rivaleggiare con Venezia, non sul piano però della promozione dell’arte contemporanea, ma per la rivalutazione dell’arte antica; questo programma ambizioso, solo parzialmente realizzato, gli consentì tuttavia di affermarsi anche come inarrivabile organizzatore di mostre, che curava nei minimi dettagli, dagli studi preparatori all’allestimento, dai problemi assicurativi al trasporto delle opere, cercando in tal modo di garantire il pieno successo degli eventi.
Ojetti dimostrava inoltre una grande attenzione alla fruibilità delle opere da parte di un vasto pubblico, nonché particolare cura anche agli aspetti finanziari delle esposizioni, che sarebbero potute diventare, mantenendo i bilanci in attivo, degli straordinari sistemi di autofinanziamento della cultura: nacquero così esposizioni come la Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento (Firenze, 1922), considerata dalla critica una delle esposizioni di antichi maestri più importanti dell’intero ventesimo secolo, l’occasione un cui per la prima volta fu ricostruita e riconosciuta la vera statura di Caravaggio, capace di influenzare la percezione e la considerazione dell’arte italiana anche dopo il Rinascimento, con un’operazione politico-culturale che aveva mirato a porre l’Italia al centro dell’attenzione europea, riaffermando la centralità della sua cultura; la Mostra della Pittura Italiana dell’800 alla XVI Biennale di Venezia (1928); la Mostra del Giardino Italiano (Firenze, 1931); l’ormai leggendaria Mostra Giottesca (Firenze, 1937), pietra miliare degli studi giotteschi.
Ojetti cercò poi di esportare il suo modello espositivo anche all’estero, riscuotendo un enorme successo: figurava infatti tra i membri dei comitati organizzatori di mostre come l’Exhibition of Italian Art (1200-1900), presentata alla Royal Academy di Londra nel 1930, e l’Exposition de l’Art Italien de Cimabue à Tiepolo, allestita a Parigi nel 1935, entrambe accompagnate da recensioni entusiastiche in tutta Europa.

Negli anni del primo conflitto mondiale, dopo aver sostenuto la campagna interventista a fianco di D’Annunzio, nel 1915 Ojetti si arruolò volontario col grado di sottotenente e gli venne subito affidato l’incarico di tutelare i monumenti, compito che assolverà con estrema dedizione e di cui rimane testimonianza nel discorso pronunciato a Firenze nel 1917 per inaugurare una mostra di fotografie di guerra (Il martirio dei monumenti), oltre che nel volume I monumenti italiani e la guerra (1917). Molto interessanti, per la ricostruzione delle vicende umane oltre che del contesto storico, sono le Lettere alla moglie (1915-1919), pubblicate postume (1964) dalla moglie Fernanda.

Dopo la fine della Grande Guerra si colloca una delle imprese più riuscite dell’attività ojettiana: nel giugno del 1920 esce infatti il primo numero di «Dedalo», destinata a diventare una delle riviste d’arte più prestigiose della prima metà del Novecento, una rassegna creata non solo per soddisfare le richieste degli eruditi, ma che si offriva al vasto pubblico come strumento di comprensione delle opere d’arte, proposte all’attenzione dei lettori attraverso un apparato illustrativo sontuoso e ponendo sullo stesso piano “arti pure” e “arti decorative”, insigni architetture e belle sedie, grandi piazze e “semplici” stoffe.
Con questa impostazione, sfogliando le belle pagine del primo numero della rivista, accanto ad uno smalto limosino era possibile osservare una tela del Guercino e dopo l’analisi di un mobile mediceo, soffermarsi su una natura morta di Cézanne, in nome di quella continuità di valori morali ed estetici che contraddistinguono l’intera riflessione critica ojettiana, volta a porre l’accento su quelle «dimenticatissime leggi che ho sempre stimate perpetue e, alcune di esse, non solo in arte»; con la sua rivista Ojetti si faceva portavoce di un nuovo classicismo, derivante dal neotradizionalismo di Maurice Denis, da contrapporre a quella cultura d’avanguardia che aveva fatto diventare “l’interiezione, sinonimo di poesia» (Raffaello e altre leggi, 1921).

La finalità divulgativa degli studi storico-artistici era considerata prioritaria da Ojetti, il cui impegno come direttore di «Dedalo», oltre che nell’organizzazione di mostre di ampio respiro e indirizzate ad un vasto pubblico, dimostra proprio la necessità di affermare il principio che l’arte è fatta per il pubblico, non solo per gli specialisti, esattamente come le “stelle non sono degli astronomi”, come recitava il titolo di un suo importante intervento sul «Corriere della Sera» (1919).
Analoghi intenti divulgativi e simile approccio metodologico aveva l’Atlante di Storia dell’Arte (1924, 1933), un libro costruito basandosi essenzialmente sull’idea che le immagini non possano essere un semplice “corredo”, ma debbano costituire l’essenza stessa di un volume dedicato alle arti figurative; alle immagini spettava il compito di raccontare l’arte italiana dalle origini alla fine dell’Ottocento e il testo pertanto era ridotto al minimo, finalizzato ad una funzione didascalica, privilegiando l’uso di numerose riproduzioni, seguite da commenti brevi, ma puntuali.
Analoga alla linea di «Dedalo» si mostrava anche l’equiparazione fra arti maggiori e minori, in nome di un’unità delle arti figurative che vedeva trattati con la stessa attenzione le grandi architetture come i legni intagliati, le sculture e gli stucchi, le grandi pale d’altare e le maioliche. Per comprendere ad esempio lo spirito dell’epoca barocca, essenziali si rivelavano i monumenti funebri berniniani come il cancello in ferro battuto del Duomo di Siracusa, le grandi volte affrescate dei palazzi romani come i velluti genovesi della fine del ’600.

L’esperienza di «Dedalo» durò fino al 1933, quando alcuni contrasti con l’editore Treves portarono all’improvvisa quanto inaspettata cessazione delle pubblicazioni non solo di «Dedalo», ma anche di «Pegaso», mensile che Ojetti aveva fondato nel ’29. Nello stesso 1933, instaurata una collaborazione con Rizzoli, fondò una nuova rivista, «Pan», rassegna di lettere, musica e arte, che in nome dell’humanitas sperava di dare gioia a tutti i lettori, come l’omonimo dio l’aveva data a tutti gli dei: le pubblicazioni però durarono solo fino al 1935. Dal sodalizio con Rizzoli nacque nel ’34 un’altra impresa editoriale di Ojetti, che ideò e diresse la celebre collana de I classici, destinata ad avere un ampio e duraturo successo di pubblico.

Nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, esce il romanzo più famoso di Ojetti: “Mio figlio ferroviere”, un testo che nell’affrontare delicate tematiche sociali, consentiva all’autore di riproporre, rivedendole, le sue antiche convinzioni politiche. Il protagonista, Nestore, pur professando idee rivoluzionarie socialiste, non riesce a resistere al fascino della borghesia e alla logica del profitto. Con un testo che può essere considerato di satira politica, l’autore rimarcava una decadenza di valori e di ideali in un’Italia uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale, ma presto piombata in una grave crisi politica, economica e sociale sfociata nell’avvento del Fascismo, che Ojetti, pur condannandone la violenza e la retorica, finirà per accettare, quasi come una conseguenza inevitabile delle tensioni sociali, del dissesto economico e del disfacimento del sistema politico italiano.

L’anno successivo pubblica il primo volume delle Cose viste, dal titolo dell’omonima rubrica tenuta sul «Corriere della Sera» con lo pseudonimo di Tantalo, il libro che lo consacrerà definitivamente nel gotha del giornalismo letterario italiano: si tratta di ritratti, ricordi, descrizioni, commenti, interpretazioni, restituiti alla riflessione del lettore con uno spirito attento, e insieme disincantato e uno stile che mantiene l’immediatezza di un “frescante”.

Nel momento di massima fama e prestigio, culminato nel ’24 con la nomina a senatore, carica rifiutata per solidarietà con l’amico poeta Salvatore di Giacomo, al quale era stata negata per motivi di censo, considerato ormai “il principe dei giornalisti italiani”, nel marzo del 1926 Ugo Ojetti assunse la direzione del quotidiano milanese: succedeva a Luigi Albertini, storico direttore del «Corriere», insofferente al processo di fascistizzazione della stampa italiana. Ojetti fu un direttore sui generis, interessato più alla valorizzazione della terza pagina che alla prima, e la sua finale accettazione del fascismo non fu sufficientemente convinta da assicurargli una duratura permanenza alla guida del giornale di via Solferino, da cui fu allontanato nel dicembre del 1927.

Dopo la revoca dalla carica di direttore, Ojetti non abbandonò il «Corriere», ma tornò a svolgere il suo ruolo di collaboratore, curando, quasi sino alla fine della sua vita, la pagina culturale del giornale che gli aveva dato notorietà.

Fra tutte le numerose collaborazioni di Ojetti con quotidiani e riviste quella col «Corriere» è stata sicuramente la più ricca e stabile; Ojetti curò rubriche entrate ormai nella storia del giornalismo italiano: Cose viste, Capricci, Cronache d’arte, Cronache femminili, Domande, Libri d’arte, Ritratti d’artisti, solo per citarne alcune, spesso diventate altrettanti libri di successo, che con una prosa di notevole intensità evocativa, fissano indelebilmente nella memoria del lettore avvenimenti, luoghi, incontri, artisti, opere.
Al “Corriere” Ojetti si affermò definitivamente anche come uno dei critici d’arte più autorevoli della prima metà del Novecento, con saggi, ritratti, recensioni, scoperte e rivalutazioni, scritti con un stile accurato e di grande forza espressiva, poi confluiti in volumi divenuti celebri: Ritratti d’artisti italiani (1911, 1923), I nani tra le colonne (1920), Raffaello e altre leggi (1921), Bello e brutto (1930), Ottocento, Novecento e via dicendo (1936), In Italia, l’arte ha da essere italiana ?(1942).

Nel gennaio del 1946, dopo aver subito nel ’44 l’onta, da cronista infaticabile, della cancellazione dall’albo dei giornalisti, Ugo Ojetti moriva nella sua villa del Salviatino, e il «Corriere della Sera» ne dava notizia con un breve trafiletto in ultima pagina: era cominciato un lungo silenzio critico, destinato a durare fin quasi ai giorni nostri, su una figura cruciale di quegli anni, che per la vastità di interessi e relazioni, le doti di organizzatore e divulgatore, l’ampio orizzonte culturale e l’indiscutibile ruolo avuto nelle istituzioni pubbliche italiane, ne fanno uno dei protagonisti della vita del nostro paese nella prima metà del Novecento.

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