Innanzitutto dobbiamo distinguere tra quello giovanile-dilettantistico e quello professionistico. In ogni caso la cultura si radica nei primi anni di attività ad opera di genitori oculati ed istruttori preparati, soprattutto sul piano etico-morale.
Se il bagaglio acquisito agli esordi è corretto e solido, facilmente verrà trasferito all'età adulta e, nei più fortunati, anche durante la carriera professionistica.
Se i nostri atleti di spicco si comportano in modo contrario all'etica sportiva, la causa va quasi sempre ricercata nell' ambiente che li ha generati.
Fin tanto che ci saranno istruttori che mirano esclusivamente alla vittoria già dai primi approcci allo sport, piuttosto che alla costruzione degli atleti di domani, specialmente sul piano etico, sarà impossibile sradicare l'attuale malcostume che genera spesso egocentrici votati a raggiungere la vittoria ad ogni costo. Anche a scapito della propria salute e di quella altrui.
Fin tanto che ci saranno genitori frustrati che vedono nel figlio le possibilità di raggiungere quei traguardi che a loro sono stati negati, al punto di creare forti ingerenze con l'istruttore o battibecchi assurdi con gli altri genitori presenti in tribuna, non sarà possibile cambiare la mentalità di chi si avvicina allo sport.
Del resto vincere non realizza soltanto l'atleta, stimolandolo sul piani psicologico (fatto del tutto positivo), ma instaura un meccanismo perverso nell'ambiente dove gli interessi economici predominano a scapito del fair play che dovrebbe essere, comunque, la pietra miliare dello sport indipendentemente dai livelli raggiunti. Se si prescinde da questa legge fondamentale, non può più essere chiamata attività sportiva ma si trasforma soltanto in una libera professione dove l'unico obiettivo è guadagnare, anche a scapito della concorrenza. E allora l'assioma che ha governato e contraddistinto lo sport per secoli (lealtà e rispetto dell'avversario) crolla inesorabilmente per essere sostituito dal perverso detto latino "homo homini lupus".
Purtroppo, tra le svariate piaghe che "ammorbano" l'Italia, dobbiamo annoverare anche la mancanza di autentica cultura sportiva.
In testa alla classifica sicuramente troviamo Calcio e Ciclismo, che da troppi anni hanno abbandonato ogni remora psicologica e mirano esclusivamente al guadagno, tanto da rifiutare ogni rapporto umano con i rispettivi "datori di lavoro" preferendo affidare la contrattazione (sempre al rialzo e del tutto spropositata) ai propri procuratori. Oltre tutto, dietro al carrozzone del calcio, preme una massa di beceri che frequentano gli stadi solo con lo scopo di vedere vincenti i propri beniamini. Sono sicuro che se proponeste ad un "tifoso" l'alternativa tra godere di un ottimo spettacolo, ma con i propri colori soccombenti, e una partita inguardabile che si conclude con la vittoria della squadra per cui si tifa, prediligerebbe senz'altro la seconda soluzione.
A complicare la situazione si sono aggiunti quei fanatici ignoranti che appartengono alle frange Ultras e che frequentano stadi e dintorni esclusivamente nel tentativo di scaricare sugli altri le proprie frustrazioni accumulate durante la settimana. E allora dobbiamo assistere ad assalti gratuiti nei confronti degli ultras della fazione opposta, alla distruzione di mezzi pubblici, di negozi, di suppellettili dei bagni dell'impianto sportivo e via discorrendo. Per non parlare degli attacchi alle forze dell' ordine, delle bombe carta, delle molotov lanciate esclusivamente per il piacere di distruggere.
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Il loro concetto di libertà totale (e impunità) cozza inesorabilmente con la libertà delle altre persone che frequentano gli stadi (e sono la maggioranza) esclusivamente per assistere ad un incontro di calcio senza rischiare per la propria integrità fisica.
Ecco perché rifiutano la tessera del tifoso che consentirebbe di identificarli. Ecco perché non vogliono essere ingabbiati nel reparto ospiti quando sono in trasferta. Del resto, sin dalla notte dei tempi, le belve sono sempre state messe in gabbia proprio per non recare danni agli umani! E, di sicuro, il comportamento degli ultras non ha nulla di umano.
Prendendo in considerazione la mentalità dei protagonisti il quadro non migliora di certo. Ad esempio, oltre a quella cariatide di Blatter (presidente del Calcio mondiale) saldamente incatenato alle tradizioni del secolo scorso, non sono da meglio giocatori e allenatori che rifiutano la tecnologia proprio per poter commettere tutte le scorrettezze possibili senza rischiare sanzioni.
Del resto la trovata dei giudici di porta nelle partite di lega europea non ha risolto nulla in quanto si sono viste in TV le solite tirate di magliette in area e le immancabili trattenute; per non parlare degli atterramenti rimasti impuniti.
Anche la mentalità dei ciclisti appare assai lontana da quella di una persona sensata. Ditemi voi che senso ha doparsi per raggiungere la vittoria? Anche perché la relazione tra doping e vittoria non è scontata, dato che anche gli altri lo fanno.
Tale meccanismo perverso costringe anche gli eventuali "onesti" a ricorrere al doping per avere qualche chance di imporsi (e di guadagnare).
A tal proposito non comprendo l'esternazione di Gimondi contro la dichiarazione del magistrato che indaga sul caso Contador e che ritiene il doping una piaga assai diffusa nel mondo del ciclismo. Non passa settimana che sui giornali non compaia almeno un atleta pescato con le mani nel sacco; per non parlare di tutti coloro che la fanno franca. Tra l'altro il vincitore del Tour de France non è stato pescato soltanto per i valori di clenbuterolo (uno dei tanti anabolizzanti), ma gli sono state pure riscontrate tracce di una sostanza chimica contenuta nelle sacche di sangue per le trasfusioni. Segno evidente dell'uso dell'autoemotrasfusione nel tentativo di eludere i controlli.
Che delusione per tutti coloro che avevano visto in Contador un autentico fuori classe, il paladino del ciclismo pulito, che aveva incantato per le sue superbe vittorie. La notizia della sua positività al test antidoping con relativa sospensione è avvilente e scoraggiante per tutti coloro che ancora amano lo sport inteso come sana partecipazione alle competizioni. Ma anche l'undicesimo classificato del Tour, un certo Garcia De Pena (guarda caso, un altro spagnolo!) è appena risultato positivo sia all'eritropoietina che al fluidificante sanguigno. Segno evidente del sistema diffuso di doping (aumento pericoloso di globuli rossi) e del tentativo, questa volta non riuscito, di mascherarlo attraverso la fluidificazione dopo la gara.
Possibile che non capiscono che lo sport è nato per migliorare l'efficienza di tutti gli apparati e del sistema immunitario? Ricorrendo al doping stravolgono il concetto in quanto minano la salute. Soltanto per un pugno di dollari in più?
Ma neppure per 100 milioni una persona sensata rischierebbe tanto!
Se il problema della mancanza di lealtà fosse presente soltanto nel mondo dei professionisti, sarebbe il male minore, sia perché il numero degli atleti professionisti è solo la punta dell'iceberg, sia perché chi fa sport per professione tenta di vincere il più possibile per guadagnare.
Ma ciò che scoraggia è la mancanza di etica nei dilettanti e nello sport giovanile dove il comportamento in campo e gli atteggiamenti degli allenatori (per fortuna non tutti) sono del tutto contrari all'etica sportiva. Per non parlare della condotta dei genitori sugli spalti che, se si trovassero a scuola (anziché allo stadio o in palestra). meriterebbero assai meno del famigerato "cinque" in condotta ripristinato dal ministro Gelmini!
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