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 Anno VI n° 11 NOVEMBRE 2010    -   TERZA PAGINA



La palestra

Di Adriana Libretti


Devo andare. Immediatamente. Non posso rimandare.
Devo muovermi. Adesso.
Quando comincia l’inverno, a Milano, la frenesia sale.
Oggi il freddo è pungente, l’aria mi fa lacrimare gli occhi.
Le automobili scalpitano. Io pure.
L’importante è produrre.

Come ogni brava milanese tengo al mio aspetto, temo il disfacimento.
Mantenere un certo decoro mi preme.
Vado.
Ho la pausa-pranzo a disposizione.

Bicicletta. Affronto il gelo.
Incollo i piedi ai pedali.
Spingo, ma ovviamente non arrivo a sudare. Mi alzo dal sellino, lo slancio è maggiore però non sudo, niente, non c’è verso.
Inchiodo. Mi catapulto giù.
Lego le ruote al palo, chiudo il lucchetto.
Entro.
Spazio palestra.

Aria condizionata, pareti pastello, musica diffusa. Dalla sauna, esalazioni di vapore aromatico.

Mi spoglio, altre donne nude si fanno guardare, sono glabre e accaldate.
Appendo i vestiti nell’armadietto.
Chiudo. Lo sportello metallico, i pensieri, le domande.
Produco vuoto.

Salone degli specchi. Allungo i legamenti, rilasso i quadricipiti.
Ascolto il sangue che scorre, il cuore che pompa.
Mi osservo mentre spicco saltelli veloci come proiettili.
Devo accelerare, bruciare.
Produco calore, finalmente.

Rivoli sulla nuca, tra le cosce, acqua salata che scivola giù dalle tempie, lungo il profilo delle labbra, e a me sembra quasi di riconoscere il sapore del pane.
Odore di montagna, ecco la vetta.
Gli addominali tesi, lo sguardo rivolto al soffitto, le costole abbassate, potenzio la volontà.
Risucchio le viscere, contraggo il segmento sotto-ombelicale.


Una voce maschile, nel labirinto delle orecchie, s’inserisce sulle mie frequenze.
“Smetti di amarmi, sbrigati” - dice.
Spero mi dia un altro attimo.
Inspiro. Espiro.
Ma la voce continua ad alitarmi addosso. Il suo fiato mi appanna la vista.
“Cancellami. Che aspetti?” - sussurra imperiosa.
Sforbicio. Meglio concentrarsi sui bicipiti femorali.

Tapis roulant: verifico i dati inseriti.
Innesto la camminata in salita, accentuo la pendenza, aumento il ritmo.
Mi sfido.


Corpo libero.
Sollevo in alto le braccia, sento la pelle tirare fin sotto le unghie, lascio cadere la mandibola.
Forza di gravità che lavora… isometria.
Lancio il piede.
Scatta la rotula nell’articolazione, cresce la pulsazione delle arterie. Sale.
Le tibie urlano.
Volume alto, musica che spacca.
Mi appendo, oscillo. Plano.
La mia immagine riflessa allo specchio giura che non morirò.

Braccia aperte all’altezza delle spalle, cerco la perfezione.
Poi rotolo a terra, prona.
Piego la schiena. Mi ancoro al suolo.
Sono di gomma.
Mi rimbalzerà il sentimento.

Spogliatoio. Clima tropicale. Profumo di eucalipto, a Milano.
Sono davvero in forma.
Seduta sulla panca recupero carta e penna nel borsone.
Voglio sfruttare i minuti ancora a disposizione buttando giù due righe.

Al possessore della voce, a colui che nel caos della metropoli fu il mio punto fermo.
Scrivo contraendo la fascia pelvica, ovvio.

“Senti. Per caso ho assistito in tivù a un documentario sulla macellazione dei porcelli. Ne hanno inquadrato uno da vicino prima del colpo di grazia. E’ stato terribile: aveva il grugno tale e quale al tuo! Presto lui non grugnirà più. Ne faranno prosciutti. Purtroppo voi maiali avete il destino segnato. I primi ad andarsene, però, sono quelli sani. Rilassati quindi, hai ancora tempo. E oggi ti ho esaudito: in effetti sei morto, ma solo per me”.

La pausa-pranzo è finita. Posso tornare al lavoro.
Mi sento sufficientemente flessibile.
Sufficientemente distaccata.
Produttiva. Vincente. Adeguata.

Grazie al cielo pullula di palestre, Milano



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