“Amore, se per qualche istante tu dovessi dimenticarmi, sappi che invece io sono troppo innamorata per dimenticarti anche soltanto per la frazione di un attimo”.
“Amore, tu per me sei una specie di maestrale: mi entri negli occhi, mi accechi. Sei un dolce pugno a tradimento, un livido blu come il mare. Solo la tua anima sa contenermi, sa avvolgermi come un raviolo”.
Sì, fui io a tirare in ballo per prima la questione del raviolo; non mi sarei mai aspettata che una sciocca metafora potesse segnarmi la vita.
Lui spesso era giù di corda, molto giù, anche se mascherava la malinconia dietro un sorriso. Io comunque lo amavo, mi piaceva com'era e non mi sognavo di cambiarlo, anzi, lo tempestavo di bigliettini, gli davo conferme.
Somigliava al mare, all’oceano. Guardandolo mi sentivo in bilico, cascavo nei suoi lineamenti, mi perdevo nel folto dei suoi capelli. Danzavo come un derviscio nella fossetta del suo mento, vorticavo e vorticavo nella passione.
Un giorno disse: “Vorrei che tu diventassi la mia donna raviolo”. Sì, da me desiderava un figlio! Ne ero onorata, entusiasta. Poi, subito, guardando in alto aggiunse: “Toh, il sole si è coperto”. E in quel preciso istante scoprii l’estasi della contingenza, l’emozione di esserci per scomparire. Ebbi la certezza che il nostro amore sarebbe morto e rinato nella terra e nei fiori, come Persefone.
Vibravo, finalmente! Quel sentimento mi esaltava, mi riscattava da ogni appiattimento, da ogni mediocrità, da ogni squallore.
Passò del tempo, il desiderio di un figlio purtroppo tardava a realizzarsi. Così quella sua idea cominciò a trasformarsi in una vera ossessione. Non faceva che ripetere: “Perché non diventi mai un raviolo?!” e io mi sentivo sempre più incapace, inutile. Vuota.
Lo amavo, per lui avrei voluto essere un enorme panzarotto spaziale, dal cuore grondavo pomodoro. Cominciai a stare male. Era lui il mio unico, folle amore, finché…
Andammo al festa di San Michele, le bancarelle si assiepavano intorno alla chiesa, l’aria odorava di zucchero filato. Il suo sguardo si posò su una vetrinetta, dietro la quale facevano bella mostra, in fila, panciuti bomboloni alla crema. “Rischio di morire senza lasciare neanche un ripieno di me”, sentenziò cupo, “l’unica soluzione è un’altra donna”.
Mi sentii avvampare. I miei esami clinici erano a posto, l’utero spazioso, le tube aperte e vigili...
Forse era stato l’abuso di coca a istupidire i suoi spermatozoi, forse i festini selvaggi di un tempo, gli alcolici di cui ora, con me, poteva fare a meno… era un uomo avanti con gli anni, eppure eterno bambino. Mi attribuiva imbronciato la colpa della mancata gravidanza, il suo malumore cresceva. Era distruttivo, sprezzante, greve... pensare che lo sapevo capace della vitalità di una trota, della leggerezza di un fiocco di neve… Ah, quanto lo amavo!
Mi riaccompagnò a casa quando già si avvicinava l’ora del crepuscolo.
Sul portone canticchiò sprezzante: “Finisce qui”, lo avrei preso a sberle.
Invece dissi: “Sali, stiamo insieme un’ultima volta!”.
Ci venne, lui, e senza farsi pregare.
Era seduto sul divano, nudo dopo l’amplesso. La sua presenza mi procurava sempre grande turbamento, mi faceva sentire privilegiata, diversa.
“Vuoi qualcosa?”, gli chiesi.
“Una donna raviolo!”.
Un fiotto mi salì, di passione, alla bocca, spesso come la polpa di un caco… poi non ricordo bene…
Vicino alla finestra si vedeva il cielo, lui mormorò: “Guarda com’è squarciato”, e all’improvviso mi parve di afferrare il bandolo della matassa universale.
Dopo ci fu la lama, rossa.
Il tramonto, rosso.
Il lungo pasto caldo.
La mia pancia si riempì.
Di lui, sì.
Per sempre.
Argomenti correlati: #racconto
Tutto il materiale pubblicato è coperto da ©CopyRight vietata riproduzione
anche parziale
Il sito utilizza cockies solo a fini statistici, non per profilazione. Parti terze potrebero usare cockeis di profilazione
|