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 Anno VI n° 12 DICEMBRE 2010    -   TERZA PAGINA


Omaggio ad Alda Merini
Padiglione VI donne

Di Silvia Sanna


Mi manca. L’aria mi manca.
Respiro sudore e muffa che si arrampica sulla parete. Bianca.
Era pallida come la faccia di Marta che si è appesa ieri a ciondolare sulla porta.
Ciondolava scandendo il tempo, come un pendolo stanco.
Scandiva il tempo della vita e quello, veloce, della morte che se l’è portata via.

Quello che non aveva, era l’aria.
Le è mancata l’aria e poi la terra sotto i piedi.
La terra che ha nascosto i suoi affanni e l’ha lasciata marcire sotto i cipressi e le panchine.

Non mi manca niente, a parte l’aria.
Ho quanto basta per scrivere lettere che non hanno lettori attenti, ho penne il cui inchiostro è sangue rappreso: lascia grumi di parole nere come il buio della mia mente.

Non ho mai niente da dire, niente che possa togliermi un peso di dosso.
Il peso dell’aria che puzza di malinconia.

Mi manca l’aria è quello che scrivo nelle mie lettere: non scrivo altro da quando sono qui.
Mi addormento ascoltando il cuore che martella sul cuscino: posso sentire chiaramente ogni fendente, senza perdere mai il conto.
Mi arrendo sempre dopo i cento e in quei cento battiti sento colpi d’ala che si librano in volo dietro questi tramezzi che hanno orecchie invadenti, dietro lo spioncino da cui mi rubano la vita, oltre il giardino di Marta, che ora è terra e ossa e fango, dove ogni pianta decide da sé il proprio nome, perché non vuole essere la stessa per tutta la vita.
Quello che non ho è quello che mi manca perché mi è stato tolto.

Mi manca l’aria.
Come gabbiani feriti passiamo la notte avvolti nella nostra sindone di piscio e sudore, a compiere un sacrificio che non abbiamo richiesto. Abbiamo ali spezzate strette al petto in un abbraccio fatto di cinghie e spilli che sopiscono.

Un abbraccio, è quello che ci negano da tempo.
Quello che non ho è l’aria, non il bisogno di essere amata.
Nelle stanze del tempo scrutiamo la vita che continua oltre queste mura, anche senza di noi.
Non c’è permesso afferrarla, possiamo solo sognarla in bianco e nero e con il cigolio di ciò che si è rotto dentro di noi.
Dentro le nostre teste: fasciate, oblique, svuotate da ogni ricordo.
Passo il tempo a scrivere e guardare il treno di Angela che corre su un binario senza fine e ruota ossessivamente attorno a se stesso.
Corre, e sfiora le mani di Rosa che lo crede un serpente, corre e lascia un soffio d’aria che per me è vitale.
Corre fino a quando loro decidono che è il momento di spezzare quella corsa isterica verso un binario morto.
Al tocco della campana che ci strazia la testa, si ritira anche lui: il trenino impazzito sulle rotaie del tempo va con Angela a far cigolare la brandina che piange ruggine.
Mi manca l’aria, posso centellinarla quando s’infrange tra le grate ed è carpita da ognuna di noi che, come segugio, ne annusa l’odore per farne scorta.



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