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La fortuna del Fortunysmo

I curatori della mostra “L'Ottocento elegante Arte in Italia nel segno di Fortuny, 1860 – 1890”, che si tiene a Rovigo, Palazzo Roverella, dal 29 gennaio al 12 giugno 2011, ci parlano della diffusione italiana di un gusto destinato a segnare l’intera stagione artistica del secondo ottocento

Di Francesca Cagianelli e Dario Mattoni

 
Vincenzo Capobianchi: Venditore di antichità, collezione privata, courtesy Phidias Antiques and Interiors, Reggio Emilia

Nell’anno 1867 l’exploit della pittura italiana all’Esposizione Universale di Parigi sancisce la diffusione italiana di un gusto destinato a segnare l’intera stagione artistica del secondo ottocento tra preziosismi pittorici e curiosità tematiche, una stagione avviatasi nell’orbita di Jean-Louis-Ernest Meissonier e in particolare del pittore spagnolo Mariano Fortuny.

Sono le opere realizzate da Domenico Morelli a partire dalla fine degli anni Sessanta a indicare la via del fortunysmo: sono dipinti prevalentemente di ambientazione esotica e ravvivati da un’accesa cromia. L’arrivo di Fortuny a Portici nel 1874 contribuiva a enfatizzare l’immediatezza narrativa e la rapidità cromatica della maniera napoletana, al punto che molti napoletani recatisi a Parigi assimilarono la moda di Fortuny, e tra questi Edoardo Dalbono. Il cosiddetto “impero del bianco”, denominazione efficace adottata per uno stile, quello napoletano, che privilegia gli effetti luminosi, vede protagonista anche il romano Pio Joris. Ma è soprattutto il caso Michetti a segnare il trionfo di un filone di ispirazione idillica, fortemente connotato di virtuosismi pittorici

Un celebre e intransigente macchiaiolo quale Adriano Cecioni griderà allo scandalo per la moda trionfante all’Esposizione di Napoli del 1877: tra i milleseicento circa lavori esposti non vi trovava neppure uno dipinto degnamente, anzi i più degni erano a suo giudizio quelli manifestanti un’arte alla moda. In testa vi erano Francesco Paolo Michelli e Giacomo Di Chirico che capitanavano la schiera dei seguaci di Mariano Fortuny. Capolavori di decorazione, di sfarzo, di sontuosità pittorica, le opere di questi ultimi turbavano la castità verista di Cecioni, ma incarnavano appieno il gusto borghese, ormai definitivamente rivolto alle novità del mercato internazionale.

Il quadro diveniva un vero “ventaglio in cornice” e le opere di Michetti, Di Chirico, così come di Eleuterio Pagliano, costituivano a quell’esposizione il vero contraltare della falange macchiaiola: il “colorito afflitto” delle loro opere sbiadiva di fronte all’esplosione cromatica dei cosiddetti fortunyani, così come di fronte alla loro “fattura coquette”. Tale esplosione cromatica ovviamente dilagava oltre le frontiere del realismo per gridare le ragioni di una pittura affidata esclusivamente alle leggi dell’occhio. L’ondata fortunyana investe la gran parte degli artisti italiani, da Roma a Napoli, da Torino a Venezia, soprattutto nel trentennio 1860-1890, con un vero e proprio apice negli anni Settanta.

Esotismo e gusto neosettecentista accompagnano in Italia la diffusione dello stile fortunyano, a partire da uno dei più fulgidi protagonisti della pittura veneta dell’Ottocento, ovvero quel Giacomo Favretto che, a partire dai primissimi anni Ottanta, avverte più insistentemente l'ascendente del lezioso linguaggio pittorico di Mariano Fortuny, conosciuto nel soggiorno parigino tra il 1878 e il 1879.

 
Giovanni Boldini: L’attesa, 1878, olio su tela, cm 61 x 34,5. Carate Brianza, collezione Linda Ciotti
Alla suggestione di Meissonier e Fortuny si rivolge anche Giuseppe De Nittis che in una fase immediatamente successiva all’arrivo a Parigi nel 1869, avvia quella produzione di scene di genere in costume.

Astro esclusivo di tale costellazione resta quello di Giovanni Boldini che nella sua stagione parigina recepisce immediatamente l’effusività cromatica e il fascino esuberante delle scenette settecentesche di Fortuny, fino ad eleggere il parco di Versailles quale palcoscenico privilegiato per i suoi idilli galanti in costume.

In realtà, come è costretto ad ammettere lo stesso Cecioni, tra il 1859 e il 1884, l’arte moderna equivale ormai, per i gusti della borghesia italiana e internazionale, all’arte alla moda: ecco che il gruppo del Caffè Michelangelo diventa una minoranza rispetto ai Fortunyani, ormai saliti in auge, ma anch’essi desiderosi di imporre il vero, pur nell’ottica di una concezione antitetica al realismo macchiaiolo: “In Italia – prosegue Cecioni-, dove, da macchiaiuoli in fuori, tutti sono dal più al meno seguaci di Fortuny, costoro credono, in generale, di essere tanti realisti capi-scuola”.

E’ ben evidente il meccanismo di rispecchiamento che potrà offrire una solida base di un successo a tale pittura che giungerà senza flessioni fino agli anni '80: “Le signore e i signori alla moda, i borghesi ricchi- scriveva nel 1877 il pittore e critico pugliese Francesco Netti - ritrovavan se stessi in quelle opere. Vedevan le stesse stoffe che avevano addosso, i tappeti che avevano a casa, il lusso nel quale vivevano, e poi scarpe di raso, mani bianche, braccia nude, piccoli piedi, teste graziose. Quelle figure dipinte stavano in ozio tali e quali come loro. Al più guardavano un oggetto, o si soffiavano con un ventaglio. Le più occupate facevano un po' di musica o leggevano un romanzo. Era il loro ritratto anzi la loro apoteosi. E si faceva a gara per averle”.



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