REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno VII n° 3 MARZO 2011 PRIMA PAGINA


Lo sport
A quando l’unita’ dello sport italiano?
Pochi sono gli sport che prevedono il vero professionismo e il trattamento cambia di conseguenza per contributi previdenziali, per il tesseramento e per l’azione delle squalifiche
Di Silvano Filippini


Sono trascorsi 150 anni dall’unità d’Italia, ma in tutto questo tempo non è mai stato preso in considerazione un sistema uniforme delle norme che riguardano lo sport italiano. Ognuno è andato per la sua strada senza tener conto di ciò che meglio funzionava negli altri sport. Al punto che in alcune discipline sportive è previsto un professionismo autentico (calcio, ciclismo, basket, boxe) sottoposto all’articolo 91 sullo sport, mentre quasi tutti gli altri sport sfruttano il falso dilettantismo che genera notevoli incongruenze.

Innanzitutto gli stipendi che, pur essendo in alcuni casi equiparabili a quelli dei professionisti, consentono alle società di spendere molto meno in quanto non sono previste tasse e contributi al pari di quelle dei professionisti, giunte ormai a livelli pari agli stipendi. Nel senso che, se un atleta professionista percepisce 100.000 €, la società è costretta a sborsarne almeno 200.000. L’esempio più anomalo giunge da Volley che non ha mai voluto adottare il sistema professionistico e si barcamena sulla lama del rasoio di un falso dilettantismo.

Se gli stipendi sono equiparabili ai professionisti del Basket (però senza sborsare le tasse), per ciò che concerne i tesseramenti si trincerano dietro al dilettantismo che non è soggetto alla legge Bosman, quindi un giocatore può essere costretto a rimanere legato alla società, vita natural durante, contro la sua volontà.

Più volte il meccanismo perverso è stato messo in evidenza, anche attraverso lettere alla Gazzetta dello Sport indirizzate da esasperati genitori di giovani atleti impossibilitati a sganciarsi dalla società che detiene il tesseramento, anche se concede loro poche possibilità di scendere in campo. Che senso ha un simile sistema nelle categorie minori o giovanili? Dove tra l’altro non è raro il caso che il pessimo rapporto con l’allenatore faccia perdere l’entusiasmo indispensabile per continuare, divertendosi. Oppure quando si è scelto di svolgere attività sportiva per stare con gli amici: appare del tutto lapalissiano che, una volta smembrato il gruppo, si tende a seguire i compagni presso altre società.

Fatto sta che, in molti casi si è deciso di interrompere l’attività sportiva (con grave danno per l’immagine dello sport), di passare ad altra federazione o di tesserarsi per il C.S.I. A tal proposito si sono verificati anche casi di giocatori squalificati per diversi anni dalle rispettive federazioni per comportamenti gravemente antisportivi, che hanno continuato l’attività nel C.S.I.. Anche questa è un’anomalia che potrebbe essere facilmente superata (se solo si volesse) grazie all’attuale tecnologia, che consente di accedere rapidamente a tutte le sentenze federali al momento dell’iscrizione. Tanto più che l’attività del CSI risulta essere legata agli oratori e alle parrocchie e l’inserimento di un soggetto dal comportamento poco edificante non sembra certo opportuna.

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