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Anno VII n° 3 MARZO 2011 LENTE DI INGRADIMENTO |
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Letteratura ed Unità
L'Italia nella visione del Principe di Salina
Tutto cambia, affinché nulla cambi! Questa è l'attualità del Gattopardo
Di Francesca Bisbano
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“Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato." Così la legge 17 marzo del 1861 n. 4671, proclamava ufficialmente la nascita del Nuovo Regno d'Italia.
Sette stati diversi per tradizione, cultura e politica, venivano fusi, accomunati dall'idea di una nazione culturale di antiche origini, che, come scriveva Werner Kaegi nel secondo dopo guerra, cinque secoli prima dell'unità aveva "una effettiva coscienza nazionale" e, dunque, forte motivo di coesione. Unità d'Italia, che oggi si ricorda con tanto zelo, unità più volte centro di accese e brillanti argomentazioni, storiche, filosofiche, politiche ed economiche. Unità, che chiamiamo identità di popolo, insieme di valori e tradizioni comuni, ma anche unificazione di lingue e letterature, unità politica e giuridica, che storicamente si dice non abbia comportato un vero e proprio scontro tra l'elemento liberale e le vecchie classi dirigenti, bensì una rassegnata accettazione della nuova realtà da parte di queste ultime, indipendentemente dalle deboli resistenze, dapprima manifestate nel Meridione a seguito della perdita della Sicilia e il conseguente ingresso di Garibaldi a Napoli. “Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.”, così Don Fabrizio, protagonista del famoso romanzo Il Gattopardo, risponde al buon Chevalley, giunto in Sicilia per offrirgli una carica senatoria. E prosegue: “i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale?”. Parole drammatiche e sfiduciate, di chi vede manifestarsi la novità con lo sguardo rassegnato dei vinti e dunque pronto ad accettare con passiva rassegnazione i mutamenti imposti dal Risorgimento Italiano. Una rivoluzione percepita, se vogliamo, in modo distaccato e con lo scetticismo tipico di un uomo, coltissimo, forte ed autoritario, ma al contempo incapace di correr dietro al flusso dirompente della storia. Don Fabrizio segue da lontano ciò che accade, sempre più convinto della vanità degli sforzi degli uomini, che s'illudono di fare la storia. Gli avvenimenti rapidi, che si susseguiranno cambieranno solo in parte l'Italia: alla morte di un mondo in decadenza, quello di Don Fabrizio, seguirà l'ascesa di una nuova epoca. E' certo però che tutto ciò, non cambierà l'uomo nella sua sostanza. Da quel 1861, gli italiani sono certo progrediti dal punto di vista scientifico, tecnologico, economico, giuridico e legislativo, ma poche abitudini sono mutate. Non vi saranno certo nobili e plebei, perché le caste e i titoli nobiliari sono stati chiaramente aboliti dalla XIV disposizione finale della Costituzione Italiana, né il latifondo, né leggi differenziate o diritti particolari. Eppure, il cambiamento non è radicale. Che Don Fabrizio avesse ragione? Probabilmente si, poiché gli italiani avranno dimostrato nei secoli una spiccata capacità di inventare sistemi politici e sociali senza precedenti, quali il passaggio dalla monarchia alla repubblica, ma è pur sempre vero che il servilismo, l'adulazione, l'ossessione per le agiatezze, l'aspirazione nel ricoprire incarichi importanti di chi ha accesso alle cariche più alte dell'istruzione, l'amore sfrenato per il denaro, l' identificazione con il signore, la preoccupazione ossessiva per le apparenze e il sapersi comportare in società sono principi che non hanno mai abbandonato la nostra cultura. Non si parla di Siciliani, ma di Italiani. Italiani uniti nel modus vivendi. Italiani uniti in un sistema di corte, che ha plasmato il costume diffondendo quasi ovunque la mentalità servile. Nuovi borghesi rimpiazzano i vecchi: servi e padroni, nella vana illusione di libertà. Tutto cambia, affinché nulla cambi! Questa è l'attualità del Gattopardo. Nell'odierna Italia, come in quella descritta da Tomasi di Lampedusa alla fine di un' era, quella dei grandi politici, fautori della repubblica, è seguita l'affermazione di un potere che non è né autoritario né dispotico, ma enorme, tale da coinvolgere non più poche centinaia, ma migliaia di persone. La corte si allarga e la tanto garantita libertà si piega all'esigenza, o meglio, alle necessità, cui l'uomo è avvezzo da secoli. In altre parole, come direbbe Massimo D'Azeglio: “Gli Italiani hanno voluto far un'Italia nuova, e loro rimanere gli Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l'Italia, e nessuno s'accorge che per riuscirci bisogna, prima, che si riformino loro” |
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