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Paul Strand e Walter Rosenblum - Tra modernità e “umanesimo”


Di Carlo Sala

Alcuni interrogativi hanno accompagnato la gran parte della storia della fotografia; rapporti delicati, intersezioni e compromessi tra ricerca autoriale e socialità dello sguardo. Ma anche le relazioni con gli sviluppi estetici delle altri arti o, per converso, l’emancipazione da queste, condizionando il lavoro di molti fotografi.

Si tratta di elementi presenti nella ricerca di Paul Strand e Walter Rosenblum. Due autori tra loro dissimili, ma legati oltre che da rapporti umani, da sicure affinità, che riguardano sia la costruzione dell’immagine, sia la visione del ruolo del fotografo.

Con la sua opera Paul Strand, maestro di Rosenblum, ha portato una carica innovativa nella fotografia del suo tempo.

Per comprenderne fino in fondo il senso, è bene qui ricordare il contesto del secondo decennio del Novecento, dominato dalle “ideologie” pittorialiste. A causa della massificazione del mezzo fotografico, alcuni autori tentarono di emanciparsi da un ruolo meramente utilitaristico e commerciale attraverso la referenza alle arti visive ed, in particolare, alla pittura. Rivista d’elezione dei pittorialisti divenne in questo contesto, “Camera Work”, ideata dal fotografo Alfred Stieglitz.

Nulla di scontato si ritrova, tuttavia, in questa rivista-frontiera, che aprì ad un fecondo dibattito sulle arti visive e sulle loro origini, funzioni e possibili diramazioni – problemi tanto urgenti per le cosiddette ‘arti minori’, figlie del secolo, ma ancora in cerca di un riconoscimento epistemologico.

Se da un lato su “Camera Work” si diffondono le foto pittorialiste; dall’altro essa si trasforma in un luogo di dibattito, in un laboratorio di modernità, dove troveranno accoglienza, accanto al progresso culturale del mezzo, le incursioni di autori europei come Auguste Rodin, Henri Matisse e Pablo Picasso.

Dopo i suoi viaggi in Europa Stieglitz torna però in America disilluso: in lui si è in parte radicata la convinzione che non sia possibile un connubio tra modernismo e fotografia. Lo dimostra appieno la sua attività di editore e organizzatore di eventi: la galleria da lui diretta, la 291 di New York, dal 1911 non organizza più esposizioni di fotografia, se non una personale di se stesso, privilegiando invece autori come Paul Cèzanne e Francis Picabia, che nel campo della pittura si facevano interpreti di un rinnovamento formale. Quando conosce il giovane Strand, rimanendo colpito dagli scatti del 1916, vi ritrova il tanto cercato esito di modernità. Le sue foto lo riportano alle ricerche prima sospese. Seguono in tal senso l’organizzazione di una mostra di Strand e la ripresa delle pubblicazioni di “Camera Work” (con gli ultimi tre numeri, 48/49/50), in cui troveranno spazio alcune celebri immagini del fotografo.

Paul Strand realizza una fotografia diretta, ancorata alla realtà, amplificando le caratteristiche endogene al mezzo fotografico. Non cerca mistificazioni, effetti sfuocati, pellicole modificate in senso manuale, ma semplicemente una strada per la modernità che passi attraverso il rapporto con l’oggettivo.
Ciò senza giungere ad esiti di scontato realismo perché Strand reca in sé il germe dell’avanguardia, la volontà di creare un discorso formale radicato. Le foto più significative del 1915 e 1916 parlano dell’America, una nazione che in quel momento stava profondamente cambiando, in cui sarebbe fin troppo facile limitarsi a cogliere l'enfasi o la retorica dei momenti. Il fotografo, invece, va alla ricerca delle immagini di oggetti semplici, architetture e persone comuni. I suoi soggetti, nella loro essenza originaria, non presentano particolari connotazioni estetiche; nel coglierli con lo scatto, Strand ne fa ‘materia’ creativa, con cui plasma nuove volumetrie formali. Se pensiamo alla celebre immagine” Abstraction, Twin Lakes, Connecticut” del 1916, riusciamo a vedere un insieme di solide forme architettoniche, che grazie al particolare taglio dato dal fotografo, trasmettono l’idea fondante di una composizione che tende all’astrazione.
Eppure nulla è colto se non nella realtà fenomenologica, elevata dall’autore ad una percezione “altra” rispetto al tangibile. Anche nella “Staccionata bianca”, sempre del 1916, troviamo un rigore formale molto forte, che ricorda l’idea di geometrizzazione, alla base della ricerca compiuta dalle coeve avanguardie pittoriche. In questo scatto impressiona tuttavia come, attraverso un contesto reale, sia resa una pluralità di piani visivi così marcata.
Se negli anni precedenti molti autori si erano illusi di far progredire il mezzo sottomettendolo alla storia della pittura, ora Strand vuole ragionare sulle sue potenzialità implicite. Il rapporto con l’arte non è più subalterno; semmai va letto in chiave cronotopica, ossia come comprensione delle grandi innovazioni che stavano avvenendo in Europa ed ora anche in America. La ricerca della modernità richiedeva forme nuove, e un modo di pensare adatto ai tempi.

A proposito del rapporto con il mezzo, Italo Zannier sottolinea come Strand “si distinse però dal fotogiornalismo di quegli anni per il rifiuto dell’istantaneità (…) cercando lo “specifico” di questa tecnica nella de contestualizzazione molto accentuata1. Un modus operandi certamente più meditato, che permetteva la costruzione di un’architettura implicita dei lavori.

Analizzando il lavoro di Strand di questi anni, votato soprattutto allo sviluppo dei canoni modernisti, sembrerebbe difficile accostarlo all’opera del suo amico e allievo Walter Rosenblum. Ma guardando le immagini del Messico, troviamo già una mutazione fondamentale, che è alla base della circolarità di sguardo tra i due. Nel soggiorno avvenuto nel Paese tra il 1932 e 1934, l’autore, pur rimanendo fedele ai propri dettami formali, inizia a declinare le immagini secondo una prospettiva sociale.
Strand concentra la sua attenzione sulle comunità messicane per carpirne i caratteri essenziali in un momento delicato e fondamentale per il Paese, segnato dal tramonto degli anni bui governati dal generale Pluaterco Elìas Calles e caratterizzati da una forte iniquità sociale. Nei confronti di questo Messico che sta profondamente mutando, come sottolinea James Krippner, “Strand svolge un ruolo fondamentale nella costruzione di un notevole archivio visivo che rifletta le costruzioni ideologiche e lotte politiche di quell’era2.
Nel compiere questo passo, Strand evita ogni ostentazione della povertà, della violenza o della discriminazione, andando piuttosto alla ricerca della vera natura della gente, definita in quegli anni mexicanidad.
Nelle foto emerge una cultura di stampo rurale, i cui paesaggi sono composti da una oggettualità semplice, inserita in architetture spartane o luoghi di fede dal sapore barocco. Le immagini devozionali del Cristo, quanto le donne e gli uomini di Santa Ana, contribuiscono alla creazione di una nuova immagine del Messico, fatta di presente e tradizione.
Nel portfolio “Photographs of Mexico”, uscito nel 1940, tra i 234 negativi scattati, il fotografo farà una scelta rigorosa, limitata a pochi scatti, giustificata non solo dalla qualità delle immagini, ma anche dalla scelta di documentare il nuovo spirito della nazione.

L’attenzione per i luoghi e le persone è dimostrata anche nel corpus di foto italiane pubblicate nel volume Un paese, realizzato da Strand in collaborazione con il regista Cesare Zavattini. Quest’ultimo considerava il lavoro congiunto come una sorta di continuazione ideale delle poetiche del cinema neo-realista, enfatizzando la visione diretta della realtà. In alcune celebri foto come “La famiglia” del 1953, Strand rende quell’immagine “dell’onestà e della comprensione umana3 che i due auspicavano come valore rappresentativo del cinema italiano e dell’arte in genere, come si evince dalle loro lettere.

Ma è nel ciclo del Messico e in quello italiano che si evidenziano maggiormente le linee di affinità con Walter Rosenblum. Qui si comprendere la lezione passata al più giovane fotografo.

Rosenblum, nella sua ricerca, si discosta dalla ‘fotografia sociale’ dell’epoca perché in lui la tematica non è mai l’unico polo che governa l’immagine. Egli rimane infatti sempre legato alla rigorosa conoscenza formale del mezzo (tecnica, composizione della foto), rispetto alla quale è possibile cogliere una prima eredità “strandiana”.

Di umili origini, Rosenblum fa il suo ingresso nella fotografia in modo quasi casuale, grazie ad un corso seguito al “Boys Club” di New York. Negli anni Trenta frequenta la “Photo League”, un’associazione che, prima di essere chiusa per le delazioni e le accuse maccartiste, aveva rappresentato un punto di riferimento per la cultura visiva americana. In quel vero e proprio laboratorio sociale, in cui le persone si incontravano e potevano scambiarsi punti di vista o esperienze, e proprio lì, nel 1939, Rosenblum e Strand si conobbero.

Un momento storico contraddistinto da grandi mutamenti sociali per gli Stati Uniti. La crisi finanziaria del 1929 e il successivo periodo di depressione avevano reso necessarie una serie di politiche keynesiane, che prevedevano un ampio intervento statale nell’economia. La ‘grande’ crisi, che aveva portato a squilibri e grandi travagli umani, con forti momenti di riassestamento sociale e di fermento, rappresenta pure l’abbrivio di una nuova speranza per il presente.

E proprio quel sentimento della speranza sembra uscire da molti scatti di Rosenblum, che, pur documentando un momento drammatico per la sua nazione, non cadono mai nell’ostentazione della miseria, messe in atto talvolta dai fotografi ‘sensazionalistici’ della stampa di massa. Nella serie di foto dedicate a “Pitt Street” a New York, ad esempio, troviamo un’umanità variegata, in cui spicca una particolare sensibilità per le classi sociali disagiate, ma da cui è assente ogni narrazione vittimistica.
Traspare semmai una lieve malinconia, come nella “Bambina con la poliomielite” del 1938, carica di grazia e dal volto velato di lievi espressioni. Ad essere esaltati sono sempre i tratti migliori delle persone, intesi anche come momenti di serenità che possono sollevarsi da ogni contesto, persino da quelli più ostili, come testimonia la “Bambina sull’altalena”, sempre del ‘38.
Un corpus di lavori, questo, insieme a quello dedicato alla “105th Street”, che compendiano perfettamente il pensiero di Rosenblum, votato ad una grande fiducia negli uomini, senza distinzioni di ceto o di razza. Le foto di Rosenblum contribuirono peraltro a sfatare tanti luoghi comuni; a scardinare una visione negativa dei quartieri poveri di New York, che, nella percezione comune, erano additati come covi di malviventi.
Nel lavoro “Il gioco del “mondo” l’immagine di una ragazzina felice crea una relazione empatica con lo spettatore che stenta a credere che la foto sia stata scattata nel Bronx. Osservandone il taglio è facile comprendere come, pur nell'immediatezza del gesto, vi sia sotteso uno studiato equilibrio compositivo, con un punto di fuga ben delineato e un arco sul fondo che sembra calibrare naturalmente la scena. Appare davvero appropriata, e quasi toccante, la definizione di fotografo “umanista”4 rivolta all'autore dalla moglie, e importante storica della fotografia, Naomi Rosenblum.

Nel suo percorso Rosenblum si diviene spettatore di grandi eventi storici: lo troviamo così a documentare una delle prime fasi del D-Day, durante lo sbarco in Normandia; o la vita dei rifugiati della guerra civile spagnola nelle suggestive immagini francesi.

Potrà apparire strano come egli, ad un certo punto, abbia intrapreso la via dell’insegnamento, che lo appassionerà per oltre quaranta anni, così uscendo dall’attività di fotografo professionista. E’ proprio questa scelta che forse gli ha permesso di lasciarci dei corpus così rilevanti di fotografie - lavori che, slegati dalle tempistiche delle riviste o dagli stretti vincoli della committenza, godono di una grande libertà espressiva.

Nelle parabole creative di Paul Strand e Walter Rosenblum troviamo la forza espressiva di due grandi creatori di immagini del loro tempo, che seppero raccontare la società con consapevolezza, vigore e passione. Evitando ogni manifestazione retorica o ideologica, i loro scatti hanno sgranato gli aspetti precipui di una realtà in continuo divenire, senza tradire (o venir meno ai) i richiami formali di una imprescindibile modernità.

Vedi la presentazione della Mostra Villa Brandolini ESTATE FOTOGRAFIA 2011

Note:
1 Italo Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Bari, 1984. (torna al testo)
2 James Krippner, Paul Strand in Mexico, edizioni Fundaciòn Televisa, 2011. (torna al testo)
3 Elena Gualtieri (a cura di), Paul Strand – Cesare Zavattini. Lettere e immagini, Edizioni Bora, Bologna, 2005. (torna al testo)
4 Naomi Rosenblum in Walter Rosenblum, Enrica Viganò (a cura di), Admira, Milano, 2007. (torna al testo)

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