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Ancora una volta alla ribalta il triste destino dei giovani

Censis - Il 42% dei giovani che oggi lavorano non arriverà a mille euro di pensione

Presentati a Roma i risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» di Censis e Unipol


Roma, 6 luglio 2011

Il 42% dei lavoratori dipendenti 25-34enni di oggi andrà in pensione intorno al 2050 con meno di mille euro al mese. Attualmente i dipendenti in questa fascia di età che guadagnano una cifra inferiore a mille euro sono il 31,9%.
Ciò significa che in molti si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. La previsione riguarda i più «fortunati», cioè i 4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard: poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni di giovani che non studiano né lavorano.
È quanto emerge dai risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» di Censis e Unipol. Negli ultimi tempi il dibattito sulle pensioni si è sterilizzato perché i conti degli enti previdenziali sono stati rimessi in ordine. Ma a soffrire in futuro saranno i conti delle famiglie: quanti oggi possono dire con serenità: «Mi godrò la pensione»?

Il problema pensioni non è risolto. L’Italia è uno dei Paesi più vecchi e longevi al mondo. Nel 2030 gli anziani over 64 anni saranno più del 26% della popolazione totale: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno.
Il sistema pensionistico dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni ’90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine del sistema, oggi preoccupa il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future.
A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell’ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 anni di contributi), mentre gli autonomi vedranno ridursi il tasso fino a meno del 40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).

Servizi sanitari pagati sempre più di tasca propria. Il ricorso a prestazioni sanitarie totalmente private è oggi molto diffuso.
Nell’ultimo anno solo il 19,4% delle famiglie ne ha potuto fare a meno. Invece, più del 70% ha acquistato medicinali a prezzo pieno in farmacia, più del 40% è ricorso a sedute odontoiatriche, quasi il 35% a visite mediche specialistiche, più del 18% a prestazioni diagnostiche. Tutto ciò è costato in media 958 euro a famiglia.
La spesa privata complessiva sale fino a 1.418 euro in media per le famiglie in cui un componente ha avuto bisogno del dentista.

Equilibrismi familiari per affrontare i bisogni assistenziali. Secondo la stima del Censis, le persone con disabilità sono oggi il 6,7% della popolazione totale: circa 4,1 milioni di persone. Ma con il progressivo invecchiamento demografico arriveranno a 4,8 milioni nel 2020 (il 7,9% della popolazione) e saranno 6,7 milioni nel 2040 (il 10,7%).
Già oggi nel 30,8% dei nuclei familiari si riscontra un bisogno assistenziale. Per la maggior parte si tratta della necessità di accudire i figli, ma per il 6,9% dipende dalla disabilità o non autosufficienza di un membro della famiglia.
Le risposte a questi bisogni provengono soprattutto dall’interno della famiglia stessa. Quando ci sono i bambini, le madri riducono spesso il lavoro fuori casa: nel 40% dei casi quando il figlio è piccolo (con meno di 6 anni), nel 21,9% dei casi quando il figlio è più grande. Ma il 7,1% delle madri con bambini piccoli e il 5% di quelle con figli grandi sono costrette a lasciare del tutto il lavoro.
I bisogni più complessi, legati alla disabilità e alla non autosufficienza, vengono anch’essi affrontati soprattutto da mogli e madri (36,9%), nel 6,8% dei casi i figli ritardano per questo motivo l’uscita da casa, ma è frequentissimo il ricorso all’aiuto a pagamento delle badanti (30,1%). Complessivamente, è il 14,9% delle famiglie ad esprimere il bisogno di servizi di assistenza pubblici (dall’asilo nido all’assistenza domiciliare), ma solo il 5,8% ha trovato risposte adeguate nel sistema pubblico.

L’incertezza del futuro. Se l’eventualità di essere colpiti da una malattia rappresenta la paura per il futuro più diffusa (preoccupa il 38,4%), la non autosufficienza è il principale timore delle persone con più di 65 anni (53,1%), mentre i giovani temono di più la perdita del lavoro (46,7%).
Il valore dell’assegno pensionistico futuro preoccupa meno: solo il 12%. Ma non c’è un’idea chiara di quanto ammonterà la propria pensione: quasi il 70% non sa a quanto corrisponderà rispetto all’ultimo stipendio percepito.
Nell’immaginare il portafoglio finanziario futuro della famiglia, una volta in pensione, il 93,5% cita la risorsa della pensione pubblica, cui si accompagnano i risparmi (36,2%), l’eredità (18%) e il reddito da lavoro protratto dopo l’età pensionabile (11,9%).
Risorse come gli investimenti finanziari, l’assicurazione privata e la previdenza integrativa vengono indicate ciascuna dal 10% circa. In definitiva, per sostenersi il 35,6% delle famiglie potrà contare esclusivamente sulla pensione pubblica, mentre solo il 27,5% include nella propria strategia previdenziale anche forme di integrazione (fondi pensione, polizze private, rendite da investimenti). Per affrontare le necessità sanitarie nel futuro, il 36,7% delle famiglie ritiene che la copertura pubblica sarà sufficiente, la maggioranza (il 54,7%) si affiderà a un modello di «welfare mix» autogestito, integrando la copertura pubblica con prestazioni private pagate direttamente di tasca propria, mentre l’intenzione di ricorrere a strumenti integrativi a copertura dei bisogni sanitari viene esplicitata solo dal 7,7% delle famiglie.

Strumenti integrativi indispensabili, ma non decollano. Gli strumenti integrativi sono ancora poco presenti nel portafoglio delle famiglie italiane. Il dato più alto si registra a proposito della polizza pensionistica integrativa (ce l’ha già il 9,1%): l’intenzione di attivarne una in futuro è espressa solo dal 6,3%, mentre la maggioranza manifesta disinteresse (74,7%) o la non conoscenza di questo strumento (9,9%).
L’80% non intende aderire a un fondo pensione di categoria e il 13,7% non sa nemmeno cosa sia. Il 78,4% non vuole stipulare un’assicurazione sanitaria privata e il 14,4% non la conosce. Il 78,5% non intende accendere un’assicurazione per la non autosufficienza e il 19,7% ne ignora l’esistenza.

Quali strategie? Più consapevolezza, più incentivi, maggiore razionalizzazione della spesa privata.
C’è dunque innanzitutto un problema di scarsa consapevolezza sociale diffusa. Sebbene il sistema di welfare sia inevitabilmente destinato a ridurre i livelli di copertura – soprattutto il sistema previdenziale, con il passaggio dal modello retributivo a quello contributivo – gli italiani non sembrano percepire il reale impatto che queste trasformazioni avranno sulla loro qualità della vita, e ancor meno sembrano attrezzati per affrontarlo”, ha commentato Carlo Cimbri, Amministratore Delegato del Gruppo Unipol. Al precipitare del tasso di sostituzione previsto per il prossimo trentennio non corrisponde una propensione alla sottoscrizione di strumenti integrativi, né la necessaria sensibilità per affrontare a partire da oggi le difficoltà che si presenteranno domani. Ma le tendenze demografiche e la situazione dei conti pubblici non consentono ulteriori proroghe. Le tutele attuali non saranno più disponibili per coprire i bisogni delle giovani generazioni. È perciò indispensabile un cambiamento nella ripartizione delle responsabilità tra intervento pubblico e oneri privati, familiari e individuali. “Oggi la spesa privata per prestazioni sociali delle famiglie è ondivaga e disorganizzata. Occorre utilizzare al meglio le risorse private facendole convergere in un sistema organizzato che razionalizzi il sistema di offerta, induca una riduzione dei costi e dunque ponga le condizioni per un incremento delle prestazioni e un allargamento della platea dei possibili beneficiari”, ha detto Giuseppe De Rita, Presidente del Censis. Da parte del soggetto pubblico è necessario lo sviluppo di ulteriori incentivi fiscali mirati, per offrire ai cittadini migliori opportunità di adesione e sollecitare le imprese a mettere a punto prodotti più efficaci. Senza un deciso shift culturale dei cittadini e un impegno più netto da parte delle istituzioni in termini di incentivazione e promozione sarà impossibile risolvere i problemi del welfare.

Questi sono alcuni dei principali risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali», presentati oggi a Roma presso il Palazzo della Cancelleria da Giuseppe De Rita e Giuseppe Roma, Presidente e Direttore Generale del Censis, e discussi, tra gli altri, da Pierluigi Stefanini e Carlo Cimbri, Presidente e Amministratore Delegato del Gruppo Unipol, Luigi Angeletti, Segretario Generale della Uil, Raffaele Bonanni, Segretario Generale della Cisl, Susanna Camusso, Segretario Generale della Cgil, Giuseppe Guerini, di Alleanza delle Cooperative Italiane, Giampaolo Galli, Direttore Generale di Confindustria, Ivan Malavasi, Presidente di Rete Imprese Italia, con le conclusioni del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Maurizio Sacconi.
br> Le conclusioni espresse da Carlo Cimbri, Amministratore Delegato del Gruppo Unipol, che evidentemente ha parlato come “esperto” di parte assicurativa non ci convincono. La verità è che i fondi assicurativi complementari, fortemente voluti dai sindacati, non appaiono “interessanti” ai lavoratori, che preferiscono gestirsi in proprio quel poco che riescono a risparmiare, magari comprando la casa. Le rendite non sono valutate “congrue” al sacrificio e forse, proprio la presenza dei sindacati nella gestione dei fondi, incute timori che sono certo ben comprensibili. La sfiducia verso queste associazioni è sicuramente molto elevata tra i lavoratori.

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