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 Anno VII n° 8 AGOSTO 2011    -   IL MONDO - cronaca dei nostri tempi



Greenpeace contro l'inquinamento fatto dai grandi marchi dell'abbigliamento
Lavorazioni realizzate in Asia con prodotti vietati da noi, che diventano tossici, mettono a rischio i luoghi di produzione ed anche noi
Di Francesca Bisbano


Detox: eliminare gli inquinanti tossici dalle fabbriche e dal commercio! Ricordate lo striscione esposto il mese scorso a Pechino sotto gli uffici dei colossi dell'abbigliamento sportivo dagli attivisti di Greenpeace?

Impossibile non ricordarlo, in quanto l' indagine condotta dai nostri attivisti e ribattezzata “Panni sporchi 2” ha dimostrato che gran parte dei capi sportivi, adatti per la scuola, la montagna, il mare, il lavoro e le uscite serali, nonché pratici, comodi e sempre alla moda, presentano tracce di nonifenoli etossilati (NPE), ossia di composti chimici che una volta rilasciati nell'ambiente si trasformano in una sostanza, dannosa tanto per l'ambiente, quanto per l'uomo.

I prodotti risultati positivi al test, quasi tutti realizzati in Cina, Vietnam, Malesia e Filippine, sono quelli commercializzati da 14 aziende internazionali, quali: Adidas, Uniqlo, Calvin Klein, H&M, Abercrombie&Fitch, Lacoste, Converse, Nike e Ralph Lauren, che da tempo ormai trasferiscono i loro impianti tessili da un paese all'altro per ridurre i costi di produzione. Il danno prodotto oltretutto non resta circoscritto ai Paesi in cui i capi vengono confezionati, dal momento che, durante il lavaggio, piccole parti di NPE vengono rilasciate e pertanto si diffondono anche da noi, dove sono proibiti".

Tagli e risparmi su tinteggiatura, lavaggio, stampa dei tessuti, accompagnati agli scarichi dei complessi industriali, se da un lato fanno ingrassare un po' più le tasche delle multinazionali, dall'altro, come i nostri ambientalisti sostengono, risultano tra le principali cause di inquinamento del fiume Yangzte, il più lungo della Cina, che fornisce acqua potabile a circa venti milioni di persone. Ad aggravare la situazione sono i risultati di altre analisi, effettuate sui prodotti distribuiti in 18 paesi del mondo, tra cui rientra anche l'Italia. I test indicano la presenza di alchilfenoli e composti perfluorurati, pericolosi anche a basse concentrazioni per il sistema ormonale dell'uomo. Un esito questo che ha allarmato gli attivisti di Greenpeace e dunque li ha condotti ad invitare i grandi colossi dell'abbigliamento sportivo a ridurre totalmente le sostanze chimiche tossiche impiegate nella produzione, nel rispetto del principio di prevenzione e in linea con l'impegno dell'azienda nella salvaguardia di acqua ed ambiente.

Il dado è tratto! Puma è stata la prima e anche Nike è entrata in partita ed hanno assicurato di abolire le sostanze tossiche dall'intero ciclo di produzione. Adesso attendiamo risposte effettive dalle altre multinazionali. Ce la faranno, considerato che ci vogliono dieci anni per sostituire un ausiliare di basso costo dato che, al momento, nessuna delle aziende indicate nell'indagine condotta da Greenpeace, ha una visione completa dell’intero processo produttivo, che porta alla fabbricazione del prodotto finito? Ancora, quali garanzie vi saranno per i consumatori, ormai costretti a diffidare del marchio, garanzia indiscussa di qualità, nonché ad acquistare merci dannose ad un prezzo pari a quello di prodotti realizzati con materiali selezionati e certificati?

Considerata la complessità della catena di fornitura dell'industria tessile, l'impresa non è facile, ma nemmeno impossibile! Molti problemi verrebbero risolti, se le industrie, che acquistano in Cina, Vietnam, Malesia, ecc i loro prodotti, iniziassero ad assumersi la responsabilità degli scarichi tossici, rilasciati localmente per produrli e, di conseguenza, adottassero una chiara politica chimica, fatta di monitoraggi periodici e scadenze precise. Tutto perché si riduca, preferibilmente si elimini, l’uso di composti pericolosi lungo l’intera catena di rifornimento! Purtroppo le multinazionali non sono le uniche a dover invertire la rotta!

A questo punto infatti sorge spontaneo chiedersi perché i paesi in causa, vittime di un inquinamento ambientale indiscriminato, non adottano ancora misure normative idonee a gestire l'uso e il rilascio dei composti pericolosi nell'ambiente a tutela della salute di cittadini e consumatori. E ancora perché gli stessi consumatori continuano ad acquistare prodotti nocivi per la salute? Davvero il prestigio e il valore, che attribuiamo ad un marchio a dispetto della sua sicurezza, vale più dell'integrità fisica?



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