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BIOGRAFIA DI CARLO MATTIOLI Di Francesco Donfrancesco
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Carlo Mattioli nasce a Modena l’8 maggio. È figlio di un insegnante di disegno e nipote di un decoratore. 1925 Si trasferisce con la famiglia a Parma, dove studia nell’Istituto d’Arte. Dopo il diploma, insegna disegno prima in Istria e in Toscana, poi a Parma e a Bologna; senza mai lasciare Parma. 1937 Sposa Lina Dotti, da cui ha una figlia, Marcella. La sua vita si svolge nel raccoglimento del lavoro e della famiglia, nella frequentazione della cerchia di intellettuali che si ritrova ogni sera al Caffè San Paolo, o del “Circolo di lettura e conversazione” dove sosta a consultare libri e giornali. La sua cultura figurativa è vastissima e intenso l’interesse per la letteratura, specie per la poesia, che lo accompagnerà per tutta la vita, testimoniato fra l’altro dalla copiosa attività d’illustratore. 1938 Risalgono al 1938 le prime testimonianze significative della sua pittura (“Ritratto della moglie Lina”). Degli anni subito successivi sono conosciuti, oltre al alcuni ritratti e paesaggi, soprattutto i nudi. Tuttavia, per questo periodo la grafica prevale sulla pittura e in essa è quasi esclusiva la presenza della figura umana, in particolare il nudo femminile. Soltanto nel 1957 troviamo un ciclo di paesaggi, dedicati al Po. Nel 1940 espone alla XXII Biennale di Venezia. Nel 1943, su invito di Ottone Rosai e con la presentazione di Alessandro Parronchi, ha luogo a Firenze la sua prima mostra personale, nella galleria del Fiore. È ancora presente a Venezia nel 1952 e nel 1954, alla XXVI e alla XXVII Biennale. Invitato nel 1956 alla XXVIII Biennale di Venezia, la giuria internazionale presieduta da Roberto Longhi gli conferisce il Premio Comune di Venezia per un disegnatore. Nello stesso anno è premiato anche alla VII Quadriennale di Roma. Nel 1957 è invitato alla IV Biennale Internazionale di San Paolo del Brasile. In tutto questo periodo le mostre personali sono rarissime. 1960/1968
Ma la grafica, anche per l’influenza della tempera, sempre più frequente come medium, lascia gradualmente il posto preminente alla pittura, nella quale cominciano a comparire forme innovative; ed è soprattutto ai nudi, in piedi o coricati, che si rivolge l’immaginazione di Mattioli anche in questo passaggio cruciale, dal 1960 al 1963. Si aggiungono ad essi alcuni ritratti, che compariranno di tanto in tanto lungo tutto il decennio, e poco oltre. Dopo i primi tentativi del 1962 e 1963, a cominciare dal 1964 e soprattutto nel 1965 e nel 1966, la natura morta sostituisce gradualmente il nudo, e a sua volta lascia il posto agli studi sul cestino di Caravaggio, che occupano il biennio 1967/1968, mentre nel 1964 compaiono, tornando costantemente fino al 1974, le vedute del duomo adagiato sui tetti della città. Nel 1960 Mattioli è invitato all’VIII Quadriennale di Roma, nel 1962 alla XXXI Biennale di Venezia, nel 1964 viene premiato a Firenze, alla XV Mostra Nazionale Premio del Fiorino, nel 1963 e nel 1965 partecipa alla V e alla VI Biennale dell’Incisione di Venezia, nel 1965 è invitato alla Biennale del Mediterraneo, ad Alessandria d’Egitto. In quello stesso anno, Carlo L. Ragghianti presenta i nudi (disegni e tempere) prima alla galleria La Strozzina di Firenze, poi all’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Pisa, consentendo una prima ricognizione nell’opera di Mattioli. Soprattutto è il primo tentativo di delinearne criticamente la fisionomia poetica: “Alimentata dal suo pullulare nel sentimento teso/ scrive nell’introduzione al catalogo/ la visione s’immerge in profondità sino a cogliere nelle forme nascenti, piene d’insorgenza espansiva e piene di disperazione o di lamento quasi biblico, una vita brada, aggressiva, urlante, persino belluina. Il sotto del mondo, della storia, della convivenza civile e umana, in una coscienza urtata da ogni inquietudine e tormento, che s’ancora al fondo primordiale e ne esprime la perenne presenza. (…) Con questa fisionomia poetica precisa, posseduta e coerente, Mattioli sta nell’arte contemporanea, seguendo la sua vocazione e la sua umanità, e portandoci o mantenendoci vicini alle scaturigini del nostro essere”.
Sono questi, fra il 1964 e il 1966, gli anni in cui comincia a esporre più di frequente la sua pittura in mostre personali. Nel 1966 è nominato membro dell’Accademia Clementina, nel 1968 dell’Accademia Nazionale di San Luca e nel 1970 dell’Accademia delle Arti del Disegno. 1969/1971 Nel presentare i suoi studi sul “Canestro di frutta” di Caravaggio, esposti nel 1968 in una sala della XXXIV Biennale veneziana, Marco Valsecchi aveva parlato, con fine intuizione degli sviluppi che si stavano preparando in quei mesi, di “uno spazio che si dilata al di là dell’orizzonte, si divincola insomma dall’hic et nunc e tende a una dimensione senza più accidentalità limitative, corre all’infinito, come un cielo (…) E allora ogni cosa rivela la sua durezza, la sua concreta corposità in un contrasto felicissimo di spazialità spalancata e di improvviso coagulo oggettuale”. Questi sono infatti gli anni che vedono un’ulteriore trasformazione nelle immagini dipinte da Mattioli, che dal precedente cerchio intimo si dischiudono a comprendere l’interiorità del mondo. Questo passaggio inizia con la comparsa dei notturni, l’immagine che caratterizza questo periodo: il notturno, talvolta come alberello, nuova presenza anch’esso; o come cielo soltanto, attraversato dalle nubi e illuminato ma non sempre dalla presenza della luna; o come cielo alto sopra il dorso del duomo, o al di là di una siepe; o ancora, come notte che scurisce una spiaggia, di cui rimane illuminata la tettoia di un capanno come una lama orizzontale; o infine, notte che avvolge un nudo femminile disteso, inarcato come il profilo di una collina. Nel 1970 viene allestita da Roberto Tassi, nelle Scuderie della Pilotta a Parma, la prima mostra antologica dell’opera di Mattioli, che viene poi ospitata nel 1971 dall’Accademia di Belle Arti a Carrara. Nel saggio introduttivo al catalogo, Tassi individua “un processo di possibilità metamorfotica delle immagini (…) che tocca di un’ambiguità leggermente angosciante tutta una parte dell’opera di Mattioli cosicché nudi paesaggi e nature morte si riferiscono a un unicum formale, che potrebbe essere come un’impronta fissa, di specie iconica, dell’inconscio del pittore”. E riferendosi alle nature morte del 1965, intravvede nella materia che le costituisce come “il tentativo di passare dall’inorganico all’organico”, e un colore che “si assorbe, si interna, è come se agisse attraverso gli spessori materici e di qui irradiasse pacatamente la sua luce”, si che l’immagine sembra scaturire dal confluire di una luce “che sale dagli strati profondi” e di una “che batte dall’esterno”.
1972/1979 Gli studi del 1972 sui “Canti” di Leopardi possono essere visti come la cerniera fra il periodo dei notturni, del quale condividono l’ispirazione lunare, e il successivo, in cui si moltiplicano le immagini del mondo con tutti i suoi colori: alla concentrazione introversa sull’interiorità del mondo che fa seguito la contemplazione estatica del suo dischiudersi. Questa apertura al mondo, e la sua ispirazione leopardiana, sono messi in evidenza da Ragghianti, che nel 1973 così ne scrive: “Le immagini di campi trepidanti, di selve come nuvole, di cieli invasi da cumuli semoventi o crepati da subitanee rotture illuminate e folgorate, non si sa dire quanto siamo identificazioni del sentimento nelle consentanee vicende naturali, ovvero creazioni interne dominanti che unificano e sublimano le contingenze e le occasioni (…) L’evidenza emotiva, scottante dell’interiorità lirica in queste opere porta naturalmente a ricordare il Dialogo del Tasso sul passaggio trasfigurante dal vero al sogno. (…) Riprova la profondità e l’intensità di una partecipazione leopardiana dell’artista…”. Di questa “partecipazione leopardiana”, Enzo Carli darà conferma critica molti anni dopo, nel 1986: “A questo occhio insaziabile e rapace volto a spaziare leopardianamente nella vastità dei cieli corrusci o tempestosi come a scrutare il pullulare e il lento macerarsi della vegetazione in un morto acquitrino sembra particolarmente convenire la nota definizione di Bachelard: ‘Le regard est un principe cosmique’; sì vasto appare il respiro dei quadri di Mattioli, spesso anche di grandi dimensioni, tali da rendere partecipe lo spettatore del sentimento panico con cui l’artista contempla il creato nei suoi altri silenzi e nel trapassare delle stagioni e delle ore, dal folgorare dei meriggi estivi ai densi crepuscoli in cui i colori della terra resistono all’intenebrarsi del cielo”. Alcuni nudi, alcune vedute del duomo di Parma, nuovi studi sul “Canestro di frutta” di Caravaggio e alcuni rami di fico, si alternano fino al 1974 ai paesaggi, sempre più numerosi; mentre saranno i ritratti della nipotina Anna, dopo la sua nascita nel 1974, a inserirsi ogni tanto fra i paesaggi, che sono il vero tema di questi anni. Fra i paesaggi si possono enumerare motivi differenti, che impegnano Mattioli a volte per un periodo relativamente breve, altre volte ritornano nel corso degli anni: gli alberi, le spiagge, l’estate, i campi di papaveri, le siepi, i pioppi in collina, i campi di lavanda, le ginestre, le aigues mortes, tramonti e notturni.
Già nel 1972 Santini aveva riconosciuto quel “processo di formazione e di individuazione dell’immagine” in Mattioli, che questi paesaggi rendono particolarmente evidente: “Nessun incontro, nessuna esperienza, nessuna reazione trapassa mai con immediatezza nella fantasia e le imprime un moto o un corso. V’è un deposito nel fondo della memoria, ove i ricordi vanno acquistando gradualmente figura, o almeno schema, struttura basilare; dove i dati naturali dispersivi e distraenti (siano visibili o non visibili) perdono gradualmente la loro consistenza, dimensione, assetto fisico, per condensarsi in una misura e in una forma che diverranno poi ancoraggi stabili dell’immagine. È un processo di progressiva spoliazione, e insieme di guadagno di una “idea” che conserverà come tale una certa fissità, matrice a lungo viva e feconda”. Così è avvenuto che Mattioli tornasse insistentemente su un’immagine, come se cercasse ogni volta una più precisa “messa a fuoco”, e improvvisamente riprendesse a lavorarvi per qualche tempo quando il suo interesse sembrava ormai esaurito. Anche per questa ragione, i paesaggi di questo periodo ritornano nei primi anni ottanta in molte varianti/ o perfino in nuove invenzioni, come il ciclo dedicato ai boschi/, quantunque il suo interesse principale sembra muoversi ormai in altra direzione. 1980/1992 Con i “paesaggi bianchi”, ispirati alle sinopie del Camposanto Monumentale di Pisa, comincia una meditazione, che poi prosegue lungo tutto il decennio, sull’essenza del dipingere. Mattioli non sembra più rivolgersi alla natura, ma alla pittura stessa, e in particolare sembra volerne evidenziare il potere metamorfotico, spesso intervenendo sopra superfici segnate da una vita precedente; come se questa fosse rimasta a permeare muri, tavole, tele, carte, lasciandovi labili tracce di sé, che una memoria immaginativa ora finalmente riconosce, mentre alla pittura è affidato il compito di estrarre l’anima segreta di materiali che allo sguardo comune sembrano inerti. Nel 1980 viene realizzata, nel Museo della Basilica di San Francesco ad Assisi, la prima di una serie di mostre antologiche che proporranno, lungo il decennio, molteplici prospettive secondo cui avvicinare un’opera che si dimostra ormai sempre più complessa e articolata. Nel 1981 l’esposizione a Milano, presso la Compagnia del Disegno, di un gruppo di nature morte degli anni 1963/1968 consente a Luigi Carluccio, che le presenta, di evidenziare la “serena partitura degli spazi. Ma è meglio dire partitura degli scomparti o delle “stanze” in cui lo spazio viene diviso con senso acuto e preciso dei valori di linguaggio ed espressione che tali divisioni devono provocare”. Una notazione che bene interpreta una ricorrente rappresentazione dello spazio in Mattioli, e non soltanto nelle nature morte di quel periodo; cosicché sembra quasi introdurre alle opere che saranno dipinte di lì a poco, dal 1984, quando la partitura verrà evidenziata o da increspature del fondo, o da strisce regolari e parallele ce suddividono la superficie orizzontalmente, o da solchi che disegnano lunette, delimitando ogni volta uno spazio in cui frammenti di paesaggio si inscrivono come memorie.
“…Sul limitare del bosco, un ponticello di assi e alcune travi, verdi per i licheni e i muschi di cui il disuso e l’umidità le avevano lentamente coperte (…) Ma quelle travi e quelle assi, desolate e pur luminose, quei legni fioriti nel loro marcire, e raffinati tanto da sembrare orientali, come sorti dalla memoria di antiche carte cinesi, nascondevano un’insidia. Infatti poco dopo, cioè nell’anno successivo (1982), le stesse travi e le stesse assi riapparivano, secche, calcinate, quasi combuste, appoggiate contro i muri diroccati e in rovina, come i residui tragici di un terremoto, nella serie di opere subito seguenti e che si chiamarono ‘I muri’. Il cielo era tornato, e rimaneva azzurro, ma solo perché si ritagliasse meglio contro la sua incontaminata quiete la desolazione di quelle pietre sconnesse, di quelle porte cadenti, di quelle travi sconficcate e annerite; il nero, il nulla, il sentimento della morte ritornava a serpeggiare tra gli oggetti, protetto dalle ombre, in una nitida, allucinata chiarezza. Da quei relitti vivi e fioriti che indicavano il mistero luminoso del bosco si passava ai relitti morti, frantumati e nudi, che indicavano, riemergente, il mistero della consunzione. Ed ecco che, nel passaggio successivo, (…) le travi diventano il tema del quadro: in uno spazio buio, cieco, senza tempo e senza natura, questi legni si uniscono, si accumulano, abbruniti, antichi (…) E nell’ultima di queste opere, le travi, cercando una disposizione, un orientamento (…) si dispongono quasi a corona intorno alle due che, sovrapponendosi, come braccia desolate, indicazioni vane nell’aere perso, hanno formato, inopinatamente, la figura finale, la croce”. Che nel 1985 si ergerà esplicita nelle antiche tavole sapientemente connesse a costruire il Grande Crocifisso, dedicato alla memoria di Lina, la compagna di una vita, scomparsa nel marzo del 1983. Nel 1984 viene allestita nel Palazzo Reale di Milano una grande retrospettiva a cura di Pier Carlo Santini, che nell’introduzione al catalogo approfondisce la sua indagine sul processo creativo in Mattioli, evidenziandone il procedere per cicli anche riguardo alla tecnica: “Fra tecnica ed espressione non c’è mai dissidio. Ed aggiungo che ogni ciclo ha i suoi mezzi e modalità. Si è fatto il nome di Burri, per suggerire un parallelo. E credo che davvero solo in lui si trovi altrettanta compenetrazione, e una eguale perizia e sapienza nel redimere e illuminare la brutalità dei reperti impiegati. Ma in Mattioli ci sono forse un impeto e un fervore più grandi, un pathos più intenso nel volgere gli occhi verso certe povere reliquie del passato”. Un atteggiamento che in Mattioli diviene ancor più evidente proprio in questo periodo: pagine di antichi manoscritti, tele e tavole maculate e consunte dal tempo, divengono il supporto frequente dei suoi dipinti, le cui immagini ne sono “tratte fuori”, come a liberare, in virtù d’immaginazione poetica, lo spirito inchiodato, crocifisso nella materia /a somiglianza dell’opus alchemico/, così realizzando la trasmutazione della torbida, soggettiva materia emotiva, nella chiarità adamantina delle essenze: un’opera di metafisica poetica. Nel 1986, per i suoi settantacinque anni, viene realizzata a Ferrara, nel Palazzo dei Diamanti, una mostra antologica dei paesaggi, presentata da Gian Alberto Dell’Acqua, mentre la Regione Emilia Romagna pubblica un volume sulla sua opera a cura di Enzo Carli; il Musée Rimbaud, a Charleville/Mézières, espone un recente ciclo di pastelli, intitolato da Mattioli, in onore del poeta francese, “Illuminations”, e il Palazzo Te di Mantova fa conoscere un gruppo di piccole opere inedite degli anni Sessanta. Negli anni successivi altre mostre illustrano aspetti significativi dell’opera di Mattioli: i nudi femminili nel 1989 al Museo d’Arte Moderna di Bolzano, nel 1990 i ritratti al Palazzo Ducale di Massa, e nel 1992 i libri, con numerosi studi preparatori, alla Fondazione Ragghianti di Lucca. 1993 Arturo Carlo Quintavalle pubblica un’ampia monografia dedicata ai disegni. Nell’inverno Mattioli dipinge i suoi ultimi quadri ad olio, dopo un lungo periodo in cui le precarie condizioni di salute gli avevano impedito di lavorare al cavalletto; un limite che lo aveva indotto felicemente a realizzare innumerevoli tempere su pagine e coperte di libri antichi. I quadri sono imponenti, raffigurano i calanchi biancheggianti e pietrificati delle Apuane, o le radici di un albero avvinghiate a massi sotterranei. Preparate da una serie di oli e di tempere iniziata nel 1991, queste opere rivelano un prevalere drammatico dell’inorganico, una presenza dell’immutabile dove dirada o vien meno la vita. 1994 Muore il 12 luglio. Viene accompagnato alla sepoltura dalla popolazione di Parma, in un lungo percorso attraverso le strade della città. A dicembre, Arturo Carlo Quintavalle espone di nuovo nelle Scuderie della Pilotta, come più alta commemorazione dell’artista, le opere donate all’Università di Parma. 1995 La Fondazione Magnani Rocca allestisce la prima rassegna antologica dell’opera di Mattioli dopo la usa scomparsa. Introducono il catalogo Marco Vallora, Roberto Tassi ed Erich Steingraber. 1998-2004 Si susseguono grandi rassegne a lui dedicate dal Museo della Cattedrale di Barcellona al palazzo del Governatore del Lussemburgo, alla Tour Fromage di Aosta fino alle celebrazioni di Bologna 2000 e alla grande mostra al palazzo della Pilotta di Parma nel decennale della scomparsa. Vedi la presentaziopne della mostra: CARLO MATTIOLI. Una luce d’ombra Citta’ del Vaticano, Braccio di Carlo Magno, dal 15 settembre al 13 novembre 2011 Roma e il Vaticano celebrano Carlo Mattioli nel centenario della nascita. Lo fanno con un’ampia retrospettiva che sarà ospitata dal 16 settembre al 13 novembre nel Braccio di Carlo Magno. Per Mattioli sarà un ritorno all’ombra di San Pietro poiché qui è stato tra i protagonisti, giusto 34 anni fa, della storica mostra “Gli artisti contemporanei di Paolo VI” che aveva dato vita alla sezione d’arte contemporanea dei Musei Vaticani Argomenti: #arte , #arte contemporanea , #biografia , #mattioli , #pittura Leggi tutti gli articoli di Francesco Donfrancesco (n° articoli 1) |
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