REGISTRATO PRESSO IL TRIBUNALE DI AREZZO IL 9/6/2005 N°8


Anno VII n° 9 SETTEMBRE 2011 PRIMA PAGINA


Il silenzio opportuno
12 Settembre: il giorno dopo!
Punti simbolici di una svolta ancora in corso: la caduta del muro di Berlino e l'11 Settembre, meriterebbero maggiori approfondimenti e meno enfasi populista per veramente commemorare i morti
Di Giovanni Gelmini


L'11 è passato, le enfatiche commemorazioni dei morti nel decennale sono passate; per rispetto a chi è morto non ho parlato ieri.

Sono morti e non si sa ancora perché; questo al di là delle elucubrazioni che generano sempre fatti del genere, l'omicidio Kennedy ne è un esempio lampante. Allora tutti a commemorare, ma nessuno si è posto un quesito di base: perché gli Stati Uniti sollevano nei paesi delle ex colonie europee tanta avversità?
Questa domanda nessuno sembra porsela; è forse un tabu?
Non è che la loro politica estera sia errata?

Dalla guerra in Corea, ancora oggi in stato di congelamento, la bandiera a “stelle e strisce” ha collezionato un’immensa serie di sconfitte in Asia, dove si è impegnata. L'Africa è stata abbandonata a se stessa ed è un immane disastro in cui l'altra superpotenza, la Cina, sta sempre più guadagnando terreno.

Anche dove ha “vinto”, come in Iraq, ha perso sul piano pratico. E ora la “primavera” del Nord Africa ripropone la lontananza dei paesi del terzo mondo da quello che per la maggior parte degli Europei è lo Stato simbolo della democrazia.

Il disastro dell'11 Settembre è sicuramente, dopo la caduta del muro di Berlino, un segno importante della svolta nella geopolitca mondiale che sta muovendosi verso nuovi equilibri. Quel disastro ha scatenato l'insicurezza nella gente Americana che, forse, prima si credeva inattaccabile dal terrorismo; noi invece ci abbiamo fatto il callo. E su questa emotività Bush ha fatto l'errore finale: ha aperto due fronti di guerra. Quello in Afganistan, necessario, e quello in Iraq, da lui fortemente desiderato, anche se qualunque imbecille di strategie di guerra e di equilibri politici lo avrebbe sconsigliato, perché proprio il sanguinario regime di Baghdad era il baluardo a quell'integralismo islamico, supporto religioso per il terrorismo di al-Quaida.

Le guerre hanno provocato innumerevoli morti, anche tra le forze alleate, e un enorme dispendio di energie economiche; hanno distolto l'attenzione dai problemi di equilibrio economico e sociale nei paesi dell'occidente, che vive al di sopra delle proprie capacità, e per ultimo hanno sanzionato la fine per gli USA come potere assoluto su metà del mondo.

Questa è una sconfitta ben più pesante di quella del Vietnam. Come un piccolo Hitler (per fortuna che la costituzione americana esiste!) Bush ha trascinato il mondo occidentale nella sua guerra finale.

Oggi Obama, ma anche l'Europa, deve fare i conti sulla necessità di ridurre il bilancio statal, di cui la guerra rappresenta sempre una parte pesante, e su cui i tagli diventano molto interessanti per poter far sopravvivere le politica di ripartizione del reddito e di sviluppo. La guerra mangia risorse a favore solo dei produttori di armi e non dà nulla agli altri. La guerra di Bush ha solo aumentato le tensioni nel mondo; oggi gli USA sono costretti a ritirarsi dal ruolo di “poliziotti del mondo”, che si erano da soli attribuito. Lasciano un grande vuoto nello scacchiere euroasiatico e, con questo, grandi pericoli. Di questo non hanno certo colpa i morti dell'11 settembre 2001, anzi ne sono le vittime.

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