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 Anno VIII n° 1 GENNAIO 2012    -   TERZA PAGINA


Riflessione sul segno dell'emozione
Il pianto “coreano”
Piangere è un atto liberatorio e di amore, ma anche un modo per attrarre l'attenzione
Di Silvia Sanna


Ho cominciato a piangere per gioco,
e poi ho creduto che fosse il mio destino.
(Alda Merini)

Sono soprattutto donne minute, di mezza età, solchi sul viso che raccontano di giornate di pioggia e terra, inginocchiate sulle risaie. Ma ce ne sono anche di più giovani, chine sui banchi di scuola e dell'università e, ancora, anziane piegate dagli anni e dal pianto.

Sono le donne nordcoreane che nei giorni scorsi abbiamo visto con le braccia strette al petto, le mani tra i capelli e gli occhi gonfi di pianto. “Scene di isteria collettiva” è la descrizione - forse veritiera, forse impietosa - che i giornalisti hanno fatto di loro: di quell'esercito disperato senza età che dondolava avanti e indietro sulle proprie ginocchia piegate.

Non capivo. E inizio solo ora a farlo, assemblando pezzi di storia recente del Nord-Corea sulle immagini strazianti che non riuscivo a spiegarmi.

Poi nell'inquadratura sono comparsi anche gli uomini e allora il quadro si complicava ancora di più.
Il pianto dell'uomo, nella società attuale, ormai intrisa di maschilità e maschilismo, non può passare inosservato, poiché rappresenta per forza di cose , spesso, un segno di debolezza.

Fin da piccoli i maschietti si sentono rimproverare con la solita frase "Non piangere che sembri una femminuccia". E tutti quegli uomini che piangevano, costernati, davanti alle telecamere e al fianco delle loro donne, anziché limitarsi a consolarle, mi hanno incuriosito più della scena stessa di pianto collettivo.

Ho così scoperto che è morto quello che definiscono il loro "caro leader", quello che pensavo fosse, visto l'appellativo, un capo politico e carismatico che ha lasciato un bel segno, prima di lasciarli, soli e disperati e improvvisamente senza una guida. Ho scoperto, inoltre, che in realtà si trattava di un dittatore e che il pianto di quella gente non era del tutto spontaneo ma ricercato, richiesto, addirittura imposto.

Mi sono venute in mente, così, le prefiche dell'antica Grecia, della Roma imperiale e di alcune regioni dell'Italia moderna come la Sardegna e la Calabria. Donne vestite di nero, con un velo scuro in testa, spesso a coprire gli occhi. Circondano il letto del morto e piangono, urlano, si strappano i capelli, cantano litanie e fingono svenimenti dovuti al dolore. Spesso, il morto, non lo conoscono neanche.

Già Esopo ne parlava e non aveva per loro parole dolci.

    Il ricco e le prefiche

    Accadde che, ad un uomo ricco che aveva due figlie, ne morisse una.
    E siccome aveva pagato le prefiche, quelle piangevano in maniera abbastanza sincronizzata.
    Avendo l’altra figlia detto a sua madre: “Noi sventurate, dato che non sappiamo piangere quelle cose di cui proviamo dolore, mentre quelle che non sono parenti si struggono così violentemente”.
    La madre le rispose: “Non meravigliarti, figlia: lo fanno per amor di denaro”.

La favola insegna che per denaro (alcuni) non si peritano di far commercio delle disgrazie altrui.

I nord coreani, quindi, non rappresentano una novità, né una pratica sconosciuta al mondo occidentale. Semplicemente, il loro pianto è pubblico, non conosce l'imbarazzo della diretta a reti unificate.



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