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Un passo falso che poteva essere evitato

DDL Lavoro: un fallimento per il Governo e per l'Italia

Rincorrendo le contrastanti richieste delle parti sociali, non si sono affrontati i veri nodi: dalle differenze nei trattamenti previdenziali ai contratti a “forfait”. L'inutile discussione sull'Articolo 18 ha fatto perdere tempo e prodotto una soluzione da riscrivere in profondità

Di Giovanni Gelmini

Non sono mai stato favorevole alla concertazione, ma i risultati ottenuti dalla Fornero la fanno rimpiangere. La sua affermazione “Il parlamento approvi oppure ci mandi a casa” ci fa propendere per la seconda soluzione, magari solo per lei che ha dimostrato, a nostro avviso, di non saper gestire un problema basilare, anche se difficile. Sicuramente lei, assieme alla Camusso, l'ha reso impossibile.

Il problema del lavoro è sicuramente un collo di bottiglia per lo sviluppo dell'economia, ma, ascoltando le “parti sociali” che chiedono tutto ed il contrario di tutto, evidentemente non si arriva da nessuna parte. Proviamo ad elencare alcuni dei veri problemi del mercato del lavoro che abbiamo identificato:
  • troppa differenza tra costo del lavoro e retribuzione netta;
  • troppo lavoro “in nero”;
  • forte squilibrio tra i diritti dei lavoratori assunti a tempo indeterminato e i lavoratori “non assunti”;
  • innumerevoli forme di contratti e di trattamenti pensionistici;
  • precariato sottopagato;
  • ammortizzatori sociali insufficienti nella copertura e forse troppo disincentivanti per il reimpiego per chi li ha.
Ora il DDL annunciato affronta in modo marginale, insufficiente o episodico questi punti e quindi si presenta come un esercizio fallito di governo del mercato del lavoro.

Non era necessario affrontare tutti i problemi, perché la loro complessità pretende un lavoro attento da certosino, non certo il sistema giusto è quello dei decreti a raffica.
Ad esempio, sarebbe stata opportuna l'unificazione dei regimi pensionistici, ma un provvedimento del genere cozza contro molti interessi lobbistici, come quelli degli artigiani e dei sindacati dei lavoratori che siedono nei tanti consigli d’amministrazione delle casse pensionistiche. Inoltre, non possiamo dimenticare che la differenza tra costo del lavoro e retribuzioni nette non può essere modificato, se non si riduce il costo dell'apparato pubblico; un passo avanti però sarebbe imporre che in busta paga appaiano tutti i costi e non li si nascondano nella falsa dizione “a carico del datore di lavoro”: per il datore di lavoro contabilmente esiste una sola voce “il costo del lavoro” e un po' più di chiarezza non farebbe certo male o... forse si ha paura di scatenare l'ira dei lavoratori nel vedere quanto ci costa l'INPS?.

Sicuramente qualche passo è stato fatto per ridurre le forme di precariato, ma troppo poco. Credo che sarebbe stato possibile: fissare dei compensi minimi sulla base dei profili corrispondenti dei contratti nazionali, comprendendo liquidazione e mensilità aggiuntive, aumentati dal 30% al 100% a secondo della durata del contratto, oltre a adeguare il trattamento assicurativo per la malattia, anche se Rete Impresa (Commercianti e Artigiani) piangeva su simili possibilità.

Per le “Partite IVA” hanno affrontato il problema, ma si poteva fare di più per impedire il divieto di ricorrere alle partite IVA per prestazioni che non si possano chiaramente configurare come consulenza esterna, indipendentemente dalla quantità di clienti del prestatore d'opera.

Vi è poi una situazione oggi molto diffusa, ma che è veramente da distruggere nel mercato del lavoro: il “contratto a forfait”. Si tratta di una forma di schiavismo ed è utilizzato per superare i divieti nell'abuso dello straordinario e i suoi costi.
Oggi è considerato normale lavorare per 10 ore la giorno, questo contraddice in pieno le speranze nate dal boom economico. La forte intensità intellettuale e d’attenzione pretesa dalle nuove tecnologie porta dritto dritto i lavoratori alla “malattia mentale” e si configura come una nuova forma di schiavismo. Il contratto “a forfait”, nato per dirigenti e impiegati direttivi, detti “quadri”, si fonda su contenuti forti di “responsabilità”, più che di operatività ed era controbilanciato dalla possibilità per il lavoratore di assentarsi dal lavoro liberamente. Questo non è applicabile per figure che hanno un maggior contenuto operativo.

Questo tipo di contratto, come già accennato, viene usato invece per superare il divieto di legge all'uso dello straordinario, oltre un certo rapporto ore ordinarie /ore straordinarie (in media meno di un ora al giorno è ammesso nell'anno) e i costi supplementari del lavoro straordinario. È difficile vietarlo, ma si può ovviare imponendo in ogni caso la rilevazione delle ore lavorative e il loro riporto in busta paga e, se violano la legge sul lavoro straordinario, si sanzionano pesantemente i datori di lavoro, si dichiara nullo il contratto fatto per violare la legge e quindi si ricalcolano le retribuzioni e contributi dovuti in modo corretto.

Ma quali sono i danni che questo tipo di contratto produce al mercato del lavoro, oltre all'elusione di contributi e i danni al lavoratore?
La prima e immediata è una riduzione dei posti di lavoro: quatto persone che fanno dieci ore al giorno, aritmeticamente, corrispondono a cinque che ne fanno otto, cioè un incremento del 25% dell'occupazione!
La seconda è che le persone non più giovani reggono male a simili ritmi di lavoro e quindi la conseguenza è la difficile riallocazione dei lavoratori anziani disoccupati, uno dei nostri problemi.

Questo argomento, molto grave, non è stato nemmeno affrontato, né dalla Fornero, né dai sindacati. Forse i sindacati farebbero bene ad aprire una “battaglia” su questi invece che ciacolare così tanto sull'Articolo 18!!!

Tutto lo sbraitare dei partecipanti al tavolo si è concentrato su una poco utile revisione dell'Articolo 18. Una rivisitazione è sicuramente necessaria, ma non urgente.
L'obiettivo avrebbe dovuto essere la sua estensione a tutte le forme di lavoro, cosa che non sembra sia avvenuta. Per renderlo possibile era necessario lasciare al giudice la scelta più opportuna tra reintegro e liquidazione economica del danno, ma in questo ultimo caso il compenso massimo previsto è ridicolo: solo 27 mensilità. E poi perché parlare di mensilità? Si deve parlare di annualità, poiché la retribuzione non è fatta di soli stipendi mensili! Un limite massimo ragionevole potrebbe essere 10 annualità e questo sicuramente scoraggerebbe il “licenziamenti facili”.

La via migliore, come aveva accennato Monti stesso in gennaio, sarebbe stato stralciare l'Articolo 18 dal provvedimento e dedicare ad esso un provvedimento specifico non urgente.

Se sicuramente la fissazione della Fornero è stata determinante, non hanno contribuito le barricate elevate dalla CGIL, che ha evitato il confronto costruttivo.

Morale della storia ci troviamo tra le mani un pessimo provvedimento, incompleto, che solleva tanti se e tanti ma, e che non affronta i veri nodi della situazione: una vera debacle per il Governo dei Professori.

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