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Anno VIII n° 7 LUGLIO 2012 TERZA PAGINA |
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Diario di una diversità
La fiaba della destra e della sinistra
Di Giovanni Gelmini
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La fine della guerra mi trovò mentre stavo giocando con i pochi balocchi. Non ce n’erano nei negozi, ma ero in ogni caso contento di quelli che avevo, non mi ponevo alcun problema. Invece qualche preoccupazione per me l'avevano i miei genitori e i miei zii. Avevano notato un mio vezzo: facevo tutto con la mano sinistra. Si, ero un perfetto mancino e la mia manina sinistra, in modo prepotente, non lasciava spazio alla paffuta mano destra. Oggi la cosa non sarebbe vista in modo così preoccupate, ma allora non era ammesso che si potesse essere mancini.
I miei zii pensarono che, se fossi andato a scuola sapendo già scrivere con la sinistra, la maestra non avrebbe avuto problemi a lasciarmi scrivere con la “mano del diavolo”. Così a cinque anni m’incominciarono ad insegnare prima a leggere e poi a scrivere. Allora scrivere con la sinistra con pennino e calamaio non era certo semplice, ma a me tutto questo piacque. Leggere era bello ed era bello scrivere. La mano sinistra era molto compiaciuta di quello che sapeva fare, anche se la cosa più bella per lei era disegnare con le matite colorate e per quello non c'era bisogno di nessun insegnamento. La destra non si lamentava, aveva il suo spazio quando nella casa di campagna potevo avvicinarmi al pianoforte, quello era il suo momento di estasi. Una signora mi aveva insegnato a riconoscere le note degli spartiti e a riportarle sulla tastiera; là c'erano due grossi pacchi di spartiti musicali e così la destra si divertiva a schiacciare i tasti e a produrre suoni com’erano scritti su quei fogli. Possiamo di certo dire che le due mani avevano trovato un bel modo per rendere la mia vita molto piacevole. Venne il primo ottobre del 1949 e fu un giorno molto importante, che cambiò la mia vita: il tanto atteso primo giorno di scuola. Sveglia presto, lavatura accurata, colazione, poi finalmente il grembiulino nero, con il nome ricamato in rosso. Si va a scuola: nella mano sinistra la cartella nuova con il sillabario, due quaderni con la copertina nera, uno a righe e l'altro a quadretti, e un astuccio di legno con dentro matite, gomma, la cannuccia e i pennini; la destra tiene la mano della mamma. Entrambe le mani sono impegnate e sicuramente emozionate. Il viaggio verso la scuola non fu lungo, anzi brevissimo: scendemmo le scale di casa, aprimmo il portone, uscimmo in strada, l'attraversammo ed eccoci a scuola. La scuola era di fronte a casa. Una scuola importante, gestita dalle suore: era considerata la migliore della città. Per le femmine arrivava al liceo e per i maschi invece c'erano solo le prime tre classi elementari; poi i maschi diventavano pericolosi in quel gineceo. Ero felice, nella scuola c'erano anche le mie amiche più grandi: Gabriella, Franca e Tati. Speravo di incontrarle e poter giocare con loro, ma imparai subito che maschi e femmine dovevano stare lontani per non creare frammistioni. Quando fummo tutti in classe, la maestra, Suor Melania, una giovanissima, dopo averci fatto recitare una preghiera iniziale, ci spiegò per bene tutto quello che non dovevamo fare e quel poco che potevamo fare, ma non mi accorsi dell'assurdità di una simile scuola: ero tutto preso dal cercare di imparare qualcosa di nuovo. Ma la tragedia era nell'aria e scoppiò poco dopo, quando la maestra ci fece disegnare qualcosa. La mano sinistra prese la matita dall'astuccio ed iniziò a tracciare righe sulla carta: mi arrivò immediatamente uno scappellotto. “No! Non si deve usare la mano sinistra.” Iniziò così il mio dramma. Tutto fu affidato alla mano destra e la sinistra fu relegata nel limbo. Qualcuno potrebbe pensare che la mano destra si potesse sentire gratificata dei nuovi incarichi: finalmente era la mano principale! E invece no. Per lei era una fatica improba impugnare la matita, fare le linee precise e poi disegnare le vocali, le consonanti, i dittonghi e infine le parole. Si stancava presto, saltava delle lettere o le invertiva, addirittura saltava le parole intere. Non le importava nulla scrivere e disegnare: lei sognava solo di suonare il pianoforte. Andare a scuola divenne una tortura: odiai la scuola, la maestra e tutto quello che avveniva in quel luogo, ma c'era una cosa che piaceva molto alla mano destra: infatti, in quella scuola le suore tenevano corsi di pianoforte. Provai a chiedere ai miei genitori di studiare pianoforte, ma i miei pessimi risultati scolastici non ponevano a favore di un impegno ulteriore. Malgrado la mia insistenza non la spuntai e fu una delle poche cose per cui non mi diedero il permesso. Alla mano destra restò solo il lavoro che non sapeva fare e che odiava e l'odio si trasmise a tutto quello che sapeva di scuola. Non che non mi piacesse conoscere, anzi “studiare” i libri di scienze che c'erano nella libreria era una delle cose che preferivo, ma fare i compiti era una pena. Obbligato ad usare solo la destra perfino il disegno non mi piaceva più. Per fortuna che i tre anni trascorsero. Con la quarta elementare passai alla scuola pubblica: basta con le tonache! La mano sinistra tornò a disegnare liberamente, con grande vantaggio per la mia produzione creativa, ma per scrivere non ci pensava certo ormai era un compito assegnato alla mano destra. L'odio si mitigò in insofferenza, ma per me studiare era una pena. Imparavo molto perché stavo attento alle spiegazioni, ma voglia di studiare niente e restavano i gravi problemi di calligrafia (al dire il vero per niente “calli”) e ortografia. Scrivere per me era sempre una pena e lo evitavo volentieri. Alle medie avevamo una professoressa molto severa e non era sua abitudine leggere i temi in classe, ma una volta entrata in classe con il pacco dei compiti corretti ci disse: “Questa volta avete fatto dei bruttissimi temi, ma ce ne è uno che devo leggervi perché comprendiate come si affronta un racconto”. Iniziò a leggere, sottolineando il metodo di scrittura: era il mio. Durante l'intervallo i compagni si accalcarono introno a me per sapere che voto avevo preso: nove? Otto? Dieci? Macché cinque, grazie alla quantità di errori che la mia mano destra involontariamente metteva. È stato in terza media che qualcosa ha cambiato il corso degli eventi, qualcosa che a distanza di quasi sessant'anni si è ripetuto, al contrario, e mi ha riportato alla memoria quei momenti.
Stavo letteralmente volando sopra i gradini delle scale e atterrai picchiando violentemente la bocca e la guancia. Mi spezzai uno dei due dentoni davanti e il polso destro mi doleva in modo assurdo. Mi portarono al pronto soccorso: per il dentone niente da fare, lo dovette sistemare poi il dentista con una bella capsula, al polso solo una forte distorsione, ma per la guancia 15 punti. Nel disastro una fortuna: la pelle non si era lacerata se non per un brevissimo tratto, per questo non mi sarebbe rimasta nessuna cicatrice visibile. -
Ma lei è mancino?
Siamo nel 2001 sono responsabile provinciale per le elezioni politiche di un partito e penso di chiedere a un settimanale economico finanziario, molto diffuso tra commercianti, artigiani e industriali della provincia, di poter pubblicare qualche articolo per illustrare le nostre posizioni. Il direttore mi dice “Si, ma se li scrivi tu e non i candidati”. È gioco forza dire si e così nascono i miei primi quattro articoli, scritti con una grandissima fatica.
- Senti ti va di proseguire la collaborazione, non posso pagarti tanto, ma posso solo 100.000 lire per articolo e 100.000 per ogni foto. Solo? Mi sembra sia una cifra esorbitante. Ovvia la mia risposta: - Si, certo, mi interessa.
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