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30 anni dopo dal dimenticatoio in cui è finita La guerra Iran Iraq raccontata da un italiano Negli anni della guerra Iran – Iraq (1980- 1988) un italiano, Pietro Palmisano, si recò in Persia per lavorare. Trent’anni dopo rievochiamo nell’intervista la sua esperienza, partendo dal viaggio per raggiungere il luogo di lavoro Di Giacomo Nigro
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Dal 1980 al 1988 l’Iran si trovò a fronteggiare l'aggressione da parte dell’Iraq di Saddam Hussein. Il dittatore iracheno, pensando che la rivoluzione e le epurazioni dei vertici militari persiani avessero molto indebolito l'Iran, un tempo "guardiano del Golfo Persico”, approfittando della sensibile ostilità della comunità internazionale verso il regime khomeinista e della fragilità della nuova Repubblica Islamica, cercò di strappare il controllo della provincia del Khuzestan, ricca di petrolio, in cui sono presenti forti gruppi di lontana origine araba. L'attacco di Saddam, che prese a pretesto alcune dispute territoriali mai risolte sullo Shatt-al-Arab, invece di mettere in crisi il regime di Khomeini, risvegliò il sentimento patriottico degli iraniani e, indirettamente, contribuì a legittimare agli occhi degli iraniani il regime islamico.
Pietro, proprio in quel periodo hai dovuto recarti in Iran per lavoro, puoi raccontarci come è iniziata la tua esperienza? Appena giunto in Iran, nei primi giorni del 1982 (avevo appena lasciato alle mie spalle i fragori dei mortaretti che salutavano la dipartita dell’81), mi accorsi che la situazione era più drammatica di come mi era stata presentata in Italia. Il volo dell’Iran Air, partito da Roma alle 20 circa, fece uno scalo non previsto ad Atene e un altro subito dopo a Istanbul. Non ci fu dato di capire il perché di questi due scali. Atterrammo a Teheran alle 3 e 30 minuti ora locale (tolte due ore e mezza di fuso orario, significa che dalla partenza erano passate solo cinque ore) e quanti facevamo quel viaggio per la prima volta avemmo occasione di pentirci della decisione presa. Come ti accolsero all’arrivo? Io non capivo una parola di ciò che sentivo intorno a me e l’aria nell’aeroporto Mehrabad era abbastanza pesante anche se vicina a 0°. Eravamo in fila per la “visita” della dogana (parecchie centinaia di viaggiatori di due atterraggi consecutivi della magnifica flotta di 747 dell’epoca). Il controllo dei bagagli era fatto manualmente, le bottiglie di liquori che qualche incauto occidentale aveva tentato di importare, comprandole all’ultimo “duty free” di Fiumicino, finirono ad inquinare i gabinetti alla turca dell’aeroporto. Vicino a ciascun ispettore della dogana c’era un “guardiano della rivoluzione” munito di pennarelli che copriva di nero le foto di donna poco “decenti” che all’epoca non mancavano su alcuni settimanali come l’Espresso o Panorama. Portare una rivista con nudi femminili poteva costare molto caro, anche il respingimento alla frontiera. Allora era impossibile portare anche un semplice coltellino nelle mutande, perché le perquisizioni personali, distinte per uomini e donne, erano molto severe e attente, al limite del pudore. Dall’area dei “voli internazionali” uscimmo alle 9 e trenta minuti. Rifacemmo tutta la trafila del controllo dei bagagli da parte dei “pasdaran” della “rivoluzione” prima di poter prendere un “volo domestico” per la città santa di Mashad, capitale del Khorasan, “dove sorge il sole”, al confine orientale del Paese. Vado a mente e se occorre chiedo aiuto a un vecchio diario personale. Mi pare di capire che la tensione era alta, sia per la situazione in cui eri stato catapultato, sia per il fatto che la percezione del pericolo era incerta, anche se palpabile. Era il 10 gennaio 1982 giorno del Battesimo di Gesù. In questa prima giornata nel secondo “paese” del cuore ho visto soltanto “pasdaran” e “basig”, pochissimi “civili”, rare le donne, che costituivano la totalità del personale civile della compagnia di bandiera, a parte i piloti, in aria e a terra. Con un salto di quasi mille chilometri poco dopo mezzogiorno, dopo aver pranzato per la prima volta nel cielo d’Iran, un 727 della “Aseman” ci depose a Mashad. Qui ci aspettava un pullman aziendale dell’ENI che ci accompagnò per la cena e per la notte allo Hyatt Hotel, albergo a tante stelle che sicuramente aveva avuto in passato ospiti più importanti e danarosi di noi. Io incominciai a gustare subito la cucina locale essenziale a base di riso, pesce e carni bianche e frutta, tanta tanta frutta, anche spremuta. Nonostante l’atmosfera diversa dagli anni precedenti la sanguinosa rivoluzione islamica, l’albergo era elegantissimo e splendente di cornici e decori dorati sulle pareti, il suo ristorante pulito ed il servizio molto professionale. Com’è proseguito il viaggio? L’indomani mattina, dopo una ricca colazione, lo stesso pullman venne a prelevarci per portarci verso la destinazione finale, il cantiere di Kanghiran vicino a Gombad-Ali, un piccolissimo villaggio di capanne come i nostri “pagghiari”, a pochi chilometri dall’estremo confine col Turkmenistan. Un pesante viaggio di quasi quattro ore per coprire 150 chilometri di strada in salita, circa 1000 metri di dislivello iniziale, e un percorso accidentato al culmine di una strada sterrata con alti precipizi dai due lati. Nonostante la strada difficile, sembrava che l’autista iraniano fosse guidato da una fede inesauribile e correva quasi a occhi chiusi. Ci fermammo a metà strada circa per uno spuntino molto povero alla vecchia stazione di posta sul valico di Mazdavand. C’erano uova sode o a occhio di bue servite in poveri piatti di alluminio, con rozze e grossolane posate dello stesso metallo, e bibite, gassose e cola islamica. Il lungo viaggio, ormai alla fine, si era fatto molto faticoso. Nel primo pomeriggio arrivammo in vista di alcune catapecchie in mezzo ad un bivio, un cartello stradale indicava 45 chilometri per Saraks a destra, ma con nostra soddisfazione il pullman si diresse sulla terra battuta a sinistra e dopo appena cinquecento metri un lungo reticolato che si perdeva a vista d’occhio era sorvegliato da uomini armati. La strada finiva davanti ad un cancello chiuso guardato da due appena ventenni “pasdaran”. Puoi raccontarci ora le tue sensazioni sulla situazione generale del Paese in guerra? Nei due anni passati in Iran ho visto cose che prima d’allora non pensavo possibili, alcune non le avrei mai potuto neanche immaginare. Ricordo che appena entrati nello spazio aereo iraniano due caccia iraniani erano ben visibili ai due lati del nostro 747 e ci lasciarono come due angeli custodi diligenti appena sopra Teheran. Questo fatto si è poi ripetuto in tutti i trasferimenti aerei che ho fatto in territorio iraniano per lavoro o per turismo. Così pure ho visto, quando mi trovavo in un qualsiasi aeroporto, che, prima di ogni partenza “civile”, uno o due caccia si levavano in volo. Negli aeroporti di Shiraz e Isfahan mi è capitato di vedere transitare reduci feriti o mutilati gravi provenienti dal Golfo, a volte li potevi sentire piangere disperati perché erano sopravvissuti ai loro compagni sul fronte. Nonostante questo, non avevi mai la sensazione paralizzante che si ha in una zona di guerra, eppure in quel periodo il regime di Saddam non solo adottò l’uso criminale delle armi chimiche, nel modo più subdolo che si possa immaginare, ma scatenò la guerra sulle città, come aveva fatto a suo tempo la potenza nazista contro la capitale del Regno Unito. E la tua attività lavorativa si è svolta, nei limiti di una situazione di guerra, normalmente? In cantiere ogni modesto manovale iraniano aveva con sé una radiolina, meglio se in FM, che lo teneva costantemente informato con le notizie dal fronte. Bisogna pure dire che ciascuna famiglia, anche delle più modeste, nelle città e nelle più sperdute campagne, aveva mandato al fronte i propri figli, studenti e umili operai. Adesso non c’erano “coscritti” o “mercenari” a difendere gli interessi dei padroni del petrolio o della finanza internazionale; in Iran dopo la rivoluzione khomeinista ormai il popolo era un unico col suo territorio. Come partecipavano i civili alla guerra? Ho visto fare raccolte di denaro per il fronte in modo abbastanza originale: tre motociclisti pazzi nel pozzo della morte con la bandierina tricolore in una mano si avvicinavano all’orlo del grande cilindro per raccogliere le offerte che gli spettatori posavano veloci nell’altra mano! Le parole più ricorrenti erano “enghelobe”, rivoluzione, e “azadì”, libertà. Finalmente si poteva coltivare la propria terra per raccoglierne il frutto e devolverlo tutto alla propria famiglia. C’era una scuola per tutti, non solo per i figli della borghesia e per l’aristocrazia di corte. La rivoluzione aveva coinvolto anche il più umile degli iraniani, anche il pastore nomade senza una fissa dimora. In pratica la guerra aveva rinsaldato il popolo al suo governo? L’attacco di Saddam con l’immane sacrificio di sangue che comportò forniva al popolo iraniano un portentoso collante per riunificarsi sotto la bandiera della rivoluzione repubblicana. In difesa della propria terra si potevano ora riscattare i graduati dell’esercito imprigionati dopo la fuga dello Shah e tutti quelli che non avevano partecipato con entusiasmo alla rivoluzione, pur non avendola osteggiata.
"Davazda farvardin" è il giorno della rivoluzione Khomeinista. Il palazzo è quello di Alì Qapu sulla Piazza Emam, una volta detta Meidan-e Naqshe Giahan, piazza disegno del mondo, sempre a Isfahan, che dai persiani è considerata nesfe giahan, cioè "metà mondo". Dietro allo striscione dell'Imam ci sono i resti di una piscina pensile sul balcone!
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