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Borderline. Artisti tra normalità e follia Estratto dal testo in catalogo della mostra Di Giorgio Bedoni
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Prima di lui Francisco Goya aveva aperto nuove strade all’immaginario, esplorando la natura dell’uomo sul crinale estetico del teatro Illuminista con le celebri incisioni dell’Obra caprichosa, messe in vendita sulle ceneri dell’ultimo carnevale settecentesco e, in seguito, con la serie delle Disparates, a richiamare le “pitture nere” della Quinta del Sordo. In quel ciclo di opere Goya aveva liberato una sorta di inframondo visionario, brulicante di terrori e delle sue più visibili rappresentazioni. Un bestiario simbolico che sposterà altrove il discorso, oltre il polo della ragione e dei suoi dispositivi culturali e filosofici, anticipando stagioni della modernità. Nelle stanze “introspettive” di questa mostra Goya, il gran cerimoniere sulle vie di una pratica veggente, e Géricault, l’interprete di uno sguardo analitico interiore, sono i precursori di sensibilità nuove, a preparare il campo “dell’arte e follia”. Entrambi, in quei loro sguardi, anticipano una dicotomia storica, che prenderà vera forma a fine Ottocento e nei primi decenni del Novecento: la ricerca del tipico della follia, scavato, talvolta con forza, nell’opera e nella biografia dell’artista, contrapposta a tutta una corrente di pensiero radunata attorno al valore “selvaggio” dell’immaginario, dell’imperfetto e del “primitivo”. All’interno di questa dicotomia lo sguardo psichiatrico ha giocato un ruolo rilevante, orientando a più livelli la propria lente osservativa: sul registro strutturale, alla ricerca di elementi analogici tra segno e sintomo negli studi, soprattutto francesi, degli anni Cinquanta e Sessanta sull’ “art psychopathologique”, in chiave antropologica nelle riflessioni della psichiatria fenomenologica, che leggerà le opere provenienti dai contesti asilari come una modalità di essere nel mondo, la traccia di una differenza che solo la dimensione intersoggettiva può riconoscere e comprendere. Da queste premesse si apre Borderline. Artisti tra normalità e follia, mostra pensata per stanze tematiche, dove le opere e gli autori si accostano non già per relazioni patografiche o per discutibili rimandi a follie d’artista, assecondando, piuttosto, l’affinità dei motivi e sensibilità vicine nell’affrontare vicende storiche e disagi del nostro tempo, siano essi del corpo e della realtà; nell’interpretare quello che abbiamo chiamato “ritratti dell’anima” o l’esperienza del sogno. Nelle sale di questa mostra gli artisti entrano in relazione sulle frontiere mobili dell’arte e follia per la forza dei linguaggi e per qualità inventive, lontani , dunque, da categorie storiche che confinavano in registri nosologici opere nate fuori dai circuiti ufficiali , altrettanto distanti da rigidi teoremi o da facili sovrapposizioni lungo l’asse dialettico insider/outsider. Accostamenti che vivono non solo di affinità , contemplando nello stesso momento ambiguità e conflitti, come ben sa l’arte del nostro tempo. Una vicinanza di opere costruita anche in ragione di quel bisogno d’espressione da molti perlustrato nel corso del Novecento: “una dea severa” per Sigmund Freud, “necessità interiore” nelle parole di Kandisky, che invitava l’artista ad essere sordo alle teorie e ai desideri della sua epoca, “una oscura spinta pulsionale” negli scritti pionieristici di Hans Prinzhorn sulla Gestaltung schizofrenica. Di questa tradizione si nutre l’allestimento delle opere in mostra, una prospettiva che fa dell’arte una vicenda sospesa tra progetto e intuizione, quella del rabdomante, sempre in caccia di sorgenti sotterranee: ricerca che talvolta illumina, animata dagli scarti dell’imprevisto e del possibile. A ben vedere, guardando alla storia e all’attuale scena dell’arte , pare più che mai vero quel paradosso sostenuto da Michel Foucault(1) agli inizi degli anni Sessanta, quando scriveva che il linguaggio escluso della follia fosse da considerarsi, in realtà, una componente ineludibile, se non fondativa, della nostra stessa modernità. Un discorso che, per completezza d’indagine, non può che allargarsi a quell’arte prodotta da fine Ottocento negli istituti psichiatrici e alle sue articolate relazioni, nel corso del Novecento, con forme ed esperienze d’avanguardia.
“Artisti tra normalità e follia” racconta di opere nate in molti casi nell’ombra di asili manicomiali ma, tra Otto e Novecento, terreno fertile per certezze ideologiche fondate sulle scienze dei fatti “positivi” e per poetiche d’avanguardia. Ciò che oggi consideriamo Borderline, percorrendo frontiere mal delimitabili per esperienze artistiche dalla natura instabile, era in fondo confine certo nei postulati del laboratorio positivista: nelle costruzioni del criminologo veronese Cesare Lombroso, che tanta fortuna ebbero nell’Europa del tempo, l’uomo di genio come il “folle” creativo, portavano i segni innegabili della degenerazione e l’arte dei folli era la forma inequivocabile di questa regressione, prendendo” piede in ragione inversa della mente sana”. Si trattava di distinzioni nette, condivise da un largo pubblico, che assecondava gli azzardi del Lombroso: era in fondo rassicurante in epoche di conquiste coloniali e di politiche dell'esclusione che anche l’arte dei folli fosse considerata una forma “atavica” di rappresentazione, in misura simile a quelle delle culture primitive ed extraeuropee. Non è un paradosso pensare che dal teorema della degenerazione(2) , fissato come architrave dell’antropologia lombrosiana, nascano, nel Novecento, gli anticorpi necessari per rileggere in altre versioni, radicalmente contrarie, il campo dell’”arte e follia”. Di quei prodotti artistici , descritti dalla letteratura positivista come chiaro sintomo di degenerazione, il Surrealismo ne farà, ad esempio, apologia e modello: l’arte prodotta negli asili manicomiali non sarà più bizzarra né atavica ma oggetto poetico discordante e “meraviglioso”, oltre i fili della ragione. Non più prodotto inutile ma segno della “bellezza convulsiva”, come scriverà Breton nel 1928, sull’onda della fascinazione per l’isteria(3) . Per i surrealisti anche l’arte dei folli sarà bella, però nel senso indicato da Isidore Ducasse, conte di Lautréamont ,nel suo celebre aforisma: bella nel senso dell’alterità e dello spaesamento, “come l’incontro fortuito su un tavolo anatomico di una macchina per cucire e di un ombrello”. Appartengono a questo periodo storico le opere in mostra di Federico Saracini, conte di Belfort, e di Adolf Wolfli. Federico Saracini, la cui produzione è stata analizzata da Giambattista Voltolini(4) è l’autore “di fine- secolo- XIX”, come firma diversi suoi lavori, nato nel 1830, ricoverato, in due occasioni e per oltre vent’anni nell’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia sino alla morte, avvenuta nel 1903. Saracini, personaggio inquieto, classificato con la diagnosi di “delirio ambizioso”, come Adolf Wolfli intercetta lo spirito del suo tempo, ne percepisce conflitti ed umori, interpretando da una cella manicomiale la storia di un Europa espansionista e coloniale, cui darà la sua versione, filosofica e moraleggiante. Negli anni dell’”atavismo” lombrosiano, dello stigma come “necessità” scientifica, il conte di Belfort rimane l’acuto osservatore che nella trama del testo disegna torri manicomiali, intuendo forse che l’ospedale psichiatrico non è la città ideale della follia, ma realtà molto più vicina al Panopticon settecentesco, il carcere “ideale” progettato dal filosofo Jeremy Bentham(5). Tutto ciò non deve sorprendere: gli “artisti manicomiali” hanno tempo, guardano e incorporano il loro mondo separato e, anche nei casi delle cartografie più visionarie, come nell'opera di Wolfli, raffigurano l'incombenza della fortezza manicomiale, deputata, come il Panopticon, ad individuare non più uno spazio sospeso ma il luogo della disciplina e del controllo. E’ sorprendente come nell’iperbole della parola l’opera di Saracini abbia più di una analogia con ciò che verrà dalle avanguardie di primo Novecento, dai Calligrammes, le figurazioni poetico-grafiche di Guillaume Apollinaire, scritti a partire dal 1914, alle “parole in libertà” che celebravano lo slancio vitale futurista. [...] Note: 1) Michel Foucault , Storia della follia nell’età classica.Torna 2) Nella seconda metà dell’Ottocento lo psichiatra francese Bénédict Augustin Morel perfeziona le tesi organiciste della malattia mentale, tracciando la tesi della “degenerescence “, che ebbe largo seguito in epoca positivistica. Max Nordau, che riconosceva Cesare Lombroso come maestro, pubblica nel 1892 “Entartung” (Degenerazione), un saggio critico verso la modernità e le sue avanguardie artistiche, che vengono giudicate “malate” ed espressione di decadenza. Torna 3) “La bellezza sarà CONVULSA o non sarà”, scrive André Breton nelle parole finali di “Nadja”, in: I Surrealisti, a cura di Arturo Schwarz, 1989, Mazzotta, Milano.Torna 4) Sulla vita e l’opera di Federico Saracini si veda il saggio di Giambattista Voltolini e Teresa Maranzano “ I concetti calligrafici di Federico Saracini, Conte di Belfort”, in: L’arte naive. Arte marginale, n. 61, dicembre 1998 ; gli scritti di Giambattista Voltolini in “Le mura di carta. Opere dei ricoverati dell’ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia 1895-1985”, a cura di Sebastiano Ranchetti, Verbarium, 2005; Giambattista Voltolini, “ Tre autori singolari dal San Lazzaro di Reggio Emilia: Antonio Tolomai, Federico Saracini, Giuseppe Fornaciari”, in: Oltre la ragione. Le figure, i maestri, le storie dell’arte irregolare, a cura di Bianca Tosatti, Skira, 2006. Torna 5) Nella lezione del 28 novembre 1973 ( in: Michel Foucault. Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France (1973-1974), Feltrinelli, Milano, 2004) Michel Foucault sostiene che il Panopticon di Bentham “è sì un modello per una prigione…ma lo è anche per un ospedale, per una scuola, per una officina… è una forma valida per ogni istituzione…”, Bentham, prosegue Foucault, “dice che si tratta di un meccanismo, di uno schema che dà forza a ogni istituzione, una sorta di congegno per mezzo del quale il potere che funziona o che deve venire esercitato in una istituzione potrà acquisire il massimo della forza. Il Panopticon è un moltiplicatore, un intensificatore di potere all’interno di tutta una serie di istituzioni…”. Sul confronto tra il dispositivo del Panopticon e le “Carceri” di Giovanni Battista Piranesi si veda il saggio di Fausto Petrella, “Freud sogna Piranesi. Le Carceri d’invenzione e l’altra scena della Città ideale”, in: La lente di Freud. Una galleria dell’inconscio, a cura di Giorgio Bedoni, Mazzotta, Milano, 2008. Torna Vedere anche gli estratti dal catalogo: Del margine di Sarah Lombardi BORDERLINE. Artisti tra normalità e follia. Da Bosch a Dalì, dall’Art Brut a Basquiat Ravenna: Museo d’Arte della città di Ravenna, dal 17 febbraio al 16 giugno 2013 Argomenti: #arte , #arte contemporanea , #saggio Leggi tutti gli articoli di Giorgio Bedoni (n° articoli 1) |
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