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Racconto Storico

La partenza


Di Emanuela M.C. Galli

Ripensandoci ora mi viene da sorridere. In casa c’era da tempo un fermento inusuale. Si stava preparando senz’altro una nuova sorpresa. Nel mio cuore speravo tanto non fosse come l’ultima, quando una sera, in salotto, i miei genitori mi avevano comunicato, con fare solenne, che sarebbe nato presto un fratellino. Come avessero potuto dire, poi, che quell’esserino urlante che sapeva di latte acido o peggio fosse un bel regalo per me, mi sfuggiva. Allora, per me, regalo era un cavalluccio di legno colorato o una bambola col volto di ceramica.

Comunque io crescevo bene, Gioia pure e anche Giulio, tra l’affannarsi di mamma, cameriere e balia.

Papà lavorava molto e aveva un’aria stanca e cupa, ultimamente, specie dopo aver discusso con signori seri ed eleganti che venivano in visita di frequente. Si chiudeva sempre nello studio e, a volte, si sentiva la sua voce stentorea, attraverso la porta di legno massiccio, pronunciare parole incomprensibili coperte da strani rumori gracchianti, fruscii, colpi come di legna secca spezzata.
Era spesso lontano da casa, per i suoi esperimenti o altri impegni. Mamma ne soffriva, ma sopportava quelle separazioni e anche una buona dose di pettegolezzi sulle amanti di lui con la stoicità di una matrona dell’antica Roma o di una Penelope.

Finalmente il segreto fu svelato. Ero piccolissima, ma ricordo come fosse adesso la notizia che si sarebbe fatto un lungo viaggio per mare, mamma, noi tre e un paio di governanti.

Osservavo i preparativi. Bauli di cuoio lucido dagli spigoli d’ottone, borsoni in cretonne a fiori, cappelliere cilindriche dai fiocchi colorati si accatastavano man mano che venivano riempiti, nell’atrio. Con attaccati rettangoli di carta cremisi coi nostri nomi scritti a caratteri gotici.

Tre giorni prima della partenza il babbo ci salutò, aveva affari importanti ed era obbligato a precederci, ma sarebbe venuto a prenderci all’arrivo. Non potevo crederci, andavamo in America!

La Compagnia di navigazione White Star aveva inviato dei biglietti omaggio per il viaggio inaugurale di un bellissimo piroscafo; tutti ne parlavano e io me la immaginavo, l’America, come una terra di sogno, un paradiso di spiagge, vie larghe, giardini, palazzi grandissimi di ferro e vetro, ponti e una statua gigantesca con una specie di torcia in mano che accoglieva come una Dea chiunque arrivasse al porto.

Mamma svolazzava per casa sempre più elettrizzata al pensiero che avrebbe presto sfoggiato i nuovi abiti che si era fatta confezionare con le sete comperate in Italia, a Como, arricchiti da merletti di Burano e piccoli cristalli, giaietti e perle di fiume lungo la scollatura o alle maniche a sbuffo.

Ma qualcosa interruppe il suo sogno e il mio.

Il piccolo Giulio stava male, da un po’ era tormentato da una brutta tosse e la febbre alta portò il dottore, che veniva a visitarlo anche cinque volte al giorno, a sconsigliare per lui nel modo più assoluto la fatica di un così lungo viaggio.

Mia madre pregava, pregava e piangeva. Ma mio fratello non migliorava. Finché il giorno stabilito per la partenza arrivò, e allora lei, mesta, con molto anticipo, fece venire un calesse col quale andammo, solo noi due, dalla città per strade sempre più strette, fino ad un rudere di castello in cima ad una scogliera.
Mi prese in braccio e salimmo per scivolose scale in pietra, fino alla merlatura. Davanti a noi l’oceano portava aria salmastra, il vento muoveva veloce piccole nuvole candide, gabbiani volavano vicini alle nostre teste stridendo.

Aspettammo per quello che a me parve un tempo infinito, che poi non sapevo cosa si stesse aspettando, ma non osavo chiedere. Me ne stavo buona, seduta in un angolo riparato, semiaddormentata, quando un urlo d’entusiasmo di mia madre mi fece sobbalzare.

E in un attimo mi riprese in braccio e frugò nella sua piccola borsa in velluto, affannosamente, estraendone due fazzoletti di bisso, con le sue iniziali ricamate, due B racchiuse in una O: Beatrice O’Brien. Ne diede uno a me nella mano destra, l’altro lo tenne nella sua sinistra. Quando il piroscafo apparve finalmente tutto intero da dietro il promontorio di Southampton, cominciò a sventolarlo e mi disse piena di eccitazione: “sventola il fazzoletto, cara, saluta quelli che sarebbero stati i nostri compagni di viaggio! Saluta quella bella grande nave, su!
Good bye!! Au revoir!! Arrivederci!
” Urlava felice.

Un bel sole brillava ora sull’Atlantico, restai a bocca aperta a guardare quella montagna bianca muoversi leggera e veloce come sospesa sull’acqua, il fumo scuro uscire dai grandi comignoli, i delfini che saltavano nella scia schiumosa e tantissime persone che agitavano le mani e, insieme alla sirena della nave, sembravano rispondere al nostro saluto.

Poi mamma il fazzoletto lo usò per asciugarsi le lacrime, mentre vedeva svanire il suo sogno tra le onde, nel blu intenso, lontano.

Era una bella mattina di primavera, fresca e colma di profumi.

Era il 10 aprile del 1912 ed io, a quattro anni e mezzo, non come avrei voluto ma comunque, in qualche modo, avevo condiviso il viaggio inaugurale dell’inaffondabile Titanic.

    Il racconto trae spunto dal cenno alla mancata partecipazione di Beatrice O’Brien, prima moglie di Marconi, con i tre figli, al viaggio inaugurale del Titanic, in “ Marconi, mio padre” di Degna Marconi Paresce.

Un po’ di storia

Non tutte le persone erano in grado di comprendere appieno la portata rivoluzionaria delle scoperte di Guglielmo Marconi. Solo dal 1907, quando la Marconi Corporation inaugurò il primo regolare servizio pubblico di radiotelegrafia attraverso l’Oceano Atlantico, tutta l’opinione pubblica mondiale ne fu più consapevole , colpita soprattutto dai salvataggi in mare resi possibili dalla trasmissione del segnale di S.O.S.

Il primo salvataggio clamoroso fu quello dei passeggeri e dell’equipaggio del piroscafo Republic entrato in collisione col piroscafo italiano Florida, al largo di New York.

Il Republic colò a picco ma anche il Florida, che aveva imbarcato tutti i naufraghi, stava affondando lentamente. Il radiotelegrafista James Binns rimase per quattordici ore di seguito all’apparecchio telegrafico trasmettendo ininterrottamente l’S.O.S. I piroscafi che giunsero in soccorso salvarono duemila persone, solo sei vite andarono perse.

Era il 25 gennaio del 1909. Nel dicembre dello stesso anno Marconi riceve il Premio Nobel per la Fisica.

Il 14 aprile del 1912 il California, un piccolo bastimento in navigazione nel Nord Atlantico, avvistò un enorme iceberg. Il comandante ordinò al telegrafista di lanciare un allarme generale a tutte le navi che incrociavano nella zona coperta da una fitta nebbia. Ma i telegrafisti del Titanic non gli diedero molta importanza, indaffarati com’erano a ricevere telegrammi privati o d’affari.

Quando ci fu la collisione con l’iceberg, il Titanic mandò tempestivamente l’ S.O.S. Il California era ancora nelle vicinanze, però il telegrafista, l’unico a bordo, dopo sedici ore di turno si era addormentato. Altre imbarcazioni erano nei pressi ma non avevano radio in dotazione. Fu il Carpathia a muoversi per primo in soccorso. Troppo distante, arrivò quando il transatlantico era già colato a picco.

Un messaggio in alfabeto Morse comunicò al mondo inorridito e incredulo l’elenco degli scampati al naufragio dell’Inaffondabile: non più di settecento su duemiladuecento passeggeri.

Argomenti:   #marconi ,        #racconto ,        #radio ,        #sos ,        #storia ,        #titanic



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