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Foto documentarie di un epoca Due cucine di un tempo in foto Riusciamo a comprendere le fotografie di un tempo passato? Di Giovanni Gelmini
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Ho cercato invano un libro che avevo comprato allora, non l’ho trovato. Chissà dove è rimasto tra i tanti traslochi. Così ho cercato in internet e ho scovato un libro che raccoglie delle foto di quel lavoro e che ovviamente ho ordinato. Appena arrivato l’ho aperto pieno di curiosità e, sfogliando rapidamente le pagine, il mio sguardo si è fermato sulla foto di una cucina di qualche agricoltore dell’Ohio nel 1936, beneficiario del programma d’aiuto sociale. A noi sembra un disastro, nulla a che vedere con le nostre, lustre, d’acciaio, vetro e melamminico, con colori dal bianco, a quelli tenui o pastello; facili da tenere pulite e in ordine. Già allora la foto poteva indicare uno stato di difficoltà, ma oggi ci appare raccapricciante; eppure di cucine così ne ho viste molte quando ero giovane, anche nel pieno del boom degli anni ’50. Quella foto mi richiama subito alla memoria un’altra che documenta un momento della mia vita infantile.
Cerchiamo di capire meglio cosa si vede. La prima cosa da dire è che non era la nostra casa, ma era stata affittata a Rovetta, nell’alta Val Seriana, nel 1945, nel periodo più duro della Seconda Guerra Mondiale, per “sfollare” da Bergamo come faceva chi poteva, temendo per i bombardamenti degli alleati. È ovvio che se una casa viene data in affitto, viene sistemata al meglio, specialmente allora perché noi eravamo i “signori” che portavano “tanti soldi”.
Siamo nel 1945, quando fuori dalla città si viveva con poco e non sempre nel pulito, come siamo abituati oggi. Allora possiamo ben comprendere che la reale differenza tra quello fotografato da Theodor Jung e quanto ritratto da mio padre è dato solo da una spazzata con la scopa di saggina e un po’ d’ordine, differenza reale nel modo di vivere della gente dei due luoghi non c’è. Giusto per concludere la storia aggiungo che mia madre scappò da lì, perché per lei era impossibile vivere in un posto simile e preferì correre rischi e stare con la famiglia a Bergamo e mia madre non era incapace di adattarsi alle difficoltà. Questo dimostra quello che ho affermato nell’articolo “Ragionando sulla “Fotografia del No” di Mario Cresci alla GAMeC” , che la fotografia non è mai oggettiva e che, oltre alla soggettività esercitata dal fotografo nella ripresa, c’è anche quella di chi guarda. Io, che so la storia di quando siamo sfollati a Rovetta, vedo e posso farvi notare i segni del degrado in una foto che ai più può apparire evocativa di una vita semplice, bella e romantica. Le due fotografie, nonostante la soggettività delle riprese, ci permettono di intuire come si svolgeva la vita tra le nostre montagne e nelle pianure americane, devastate dalla crisi economica. La vita mancava in entrambi i luoghi dell'essenziale. Con queste constatazioni possiamo capire l'importanza della fotografia come documento storico che fa luce sul passato. Argomenti: #arte , #arte contemporanea , #documenti , #foto , #fotografia , #new deal , #storia Leggi tutti gli articoli di Giovanni Gelmini (n° articoli 506) il caricamento della pagina potrebbe impiegare tempo |
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