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 Anno I n° 12 del 08/12/2005    -   LENTE DI INGRADIMENTO


Storia e significato
Il labirinto nella antichità

Di Anna Maria Fabbri


Il Labirinto, il gioco in cui s’imbattono spesso gli appassionati di enigmistica o dei più nuovi videogames, è in realtà un emblema antichissimo, universalmente conosciuto, giunto a noi attraverso millenni di storia, effige e costruzione misteriosa che compare in tempi e luoghi molto distanti tra di loro. Oltre al bacino del Mediterraneo, dove i labirinti sono i più numerosi, ne sono stati trovati un po’ in tutta Europa dalla Scandinavia, alla Cornovaglia, alla Spagna, alla Francia; questo simbolo è presente anche in India, in Siria, in Arizona, in Perù. In una bibbia armena la città di Gerico è rappresentata come un labirinto e sappiamo da alcune effigi ritrovate che il simbolo era conosciuto anche in Egitto, dove costruzioni labirintiche furono utilizzate all’interno delle piramidi per scoraggiare ladri e intrusi.
Le più antiche rappresentazioni labirintiche attestate risalgono alla preistoria, precisamente all’ Epipaleolitico (10.000 – 6.000 a.C.), anche in Italia abbiamo graffiti rupestri preistorici come quelli di Naquane a Capo di Ponte, in Lombardia. Tuttavia ancora non sono state formulate ipotesi inconfutabili sul perché di una così vasta diffusione del labirinto nel mondo, anche le ipotesi di una civiltà unica che, al culmine del suo splendore, avrebbe poi, attraverso una contaminazione culturale, trasmesso il simbolo ad altre civiltà risulta poco convincente visto la distanza spazio temporale che intercorre tra le varie costruzioni o effigi labirintiche.

Forse a tutt’oggi è Kerényi che, con la sua opera di attento studio mitologico, Gli Dei e gli eroi della Grecia (1962) , fornisce la spiegazione più plausibile e accettata: ricostruendo tutte le coordinate geografiche dei labirinti egli ne individua la natura archetipica; il simbolo labirintico, per la sua stessa struttura, ha permesso di raffigurare un processo mentale connaturato al genere umano, rappresentando un archetipo che, in quanto tale, è eterno. L’archetipo non ha bisogno di essere spiegato né di essere trasmesso perché fa parte di ciascun essere umano ed è intuitivamente conosciuto.
Del resto la natura stessa, nella sua infinita creatività, è ricca di labirinti e li ha riprodotti in molteplici modi: le caverne, i corsi d’acqua, oltre ai labirinti spiraliformi, uno dei più belli è forse la conchiglia Nautilus Pompilius. Ma lo stesso cervello umano, se ne osserviamo la conformazione, cos’altro è, con i meandri e le sue linee a spirale, se non un perfetto labirinto? Il DNA, le galassie del vasto universo, non ci ricordano immediatamente la struttura labirintica? Come se il creato volesse ribadire quello che ciascuno di noi sperimenta intuitivamente: il labirinto fa parte della vita e la vita stessa è un labirinto.

Se accettiamo la natura archetipica del labirinto comprendiamo altresì facilmente il perché del perdurare di questo simbolo attraverso i secoli e comprendiamo anche l’attrattiva che esso ha sempre esercitato sugli artisti di tutti i tempi. Ciascun essere umano si aggira nel suo labirinto, in difficoltà di varia natura, spesso si trova stretto in vicoli ciechi dai quali l’uscita è difficile se non impossibile. A detta di Borges, autore che fece del labirinto uno dei suoi simboli preferiti, muoversi nel labirinto, ossia vivere, è difficile, tanto che ci si può anche perdere: “Mai ci sarà una porta. Tu sei dentro/ e la fortezza è pari all’universo/ dove non è diritto né rovescio/né muro esterno né segreto centro./ Non sperare che l’aspro tuo cammino/che ciecamente si biforca in due,/ che ciecamente si biforca in due/abbia fine[…]”, scrive in Il labirinto (Elogio dell’ombra) .
Ci si perde talvolta nel labirinto e allora è lui ad avere la meglio sui nostri tentativi di emancipazione. O così ci sembra. In realtà perdersi è talvolta l’unico modo per ritrovare la strada e per arrivare all’uscita, alla verità. Una realtà questa che tutti noi possiamo aver sperimentato e che fu svelata da Nietzsche, il filosofo tedesco che senza dubbio nella sua vita dovette attraversare svariati meandri privi di vie d’ uscita, non ultimo quello della follia; a lui si deve l’affermazione geniale che solo dal caos – labirinto supremo – possa nascere una stella danzante, in altre parole la creatività, la vita, e che ribadisce in Ecce Homo: “Noi preferiamo le vie tortuose per giungere alla verità.”

Il labirinto più antico che si conosca nel bacino del Mediterraneo è quello vicino al lago Moeris, in Egitto, costruito parzialmente sotto il lago, un bacino artificiale alimentato dalle acque del Nilo. Storici dell’età classica quali Erodoto, Plinio, Diodoro Siculo e Strabone lo descrivono immenso, con un piano sotto e due sopra la terra e aree riservate agli iniziati di un rito non ben specificato. Già nell’antichità, quindi, il labirinto sarebbe stato adibito a luogo di culto nel quale si svolgevano cerimonie sacre. Questa caratteristica lo contraddistinguerà per secoli e sarà uno dei tratti fondamentali delle costruzioni labrintiche.

Un’altra importante descrizione di un mitico labirinto è quella fatta da Platone raccontando della città-isola di Atlantide nel famosissimo dialogo il Crizia. Questa città leggendaria, immensa come un continente e ricchissima, situata oltre le colonne d’ Ercole, sarebbe stata inoltre una grande potenza militare. Tra le molte guerre sostenute, Atlantide si sarebbe scontrata anche con Atene, giungendo ad occuparla, per essere poi sprofondata nel mare in sole poche ore nel 9500 a.C. Ma ciò che è più interessante è la descrizione che il filosofo fa della mitica isola. Scrive Platone nel Crizia: “[…]Vicino al mare, ma nella parte centrale dell'intera isola, c'era una pianura, che si dice fosse di tutte la più bella e garanzia di prosperità, vicino poi alla pianura, ma al centro di essa, a una distanza di circa cinquanta stadi, c'era un monte, di modeste dimensioni da ogni lato. […] Poseidone, avendo concepito il desiderio di lei, – Cleito, una fanciulla mortale – sì unì con la fanciulla e rese ben fortificata la collina nella quale viveva, la fece scoscesa tutt'intorno, formando cinte di mare e di terra, alternativamente, più piccole e più grandi, l'una intorno all'altra, due di terra, tre di mare, come se lavorasse al tornio, a partire dal centro dell'isola, dovunque a uguale distanza, in modo che l'isola fosse inaccessibile agli uomini: a quel tempo infatti non esistevano né imbarcazioni né navigazione. [...]”.

Mitologica del resto è anche la costruzione labirintica per eccellenza, quella del Labirinto di Cnosso, a Creta, della cui struttura ci rimangono soltanto diverse effigi impresse in numerose monete e vasi d’epoca. La tradizione vuole che il labirinto di Cnosso sia stato voluto dal re cretese Minosse per rinchiudervi il Minotauro, essere mostruoso, metà uomo e metà toro, nato dal rapporto innaturale di sua moglie Parsife con un toro. Su questo mito si innesta poi la vicenda di Teseo, figlio del re ateniese vinto da Minosse, che, per uccidere il mostro e porre fine alle stragi di fanciulli ateniesi sacrificati alla mostruosa creatura, ricorre all’aiuto di Arianna – tra l’altro figlia di Minosse e Parsife e quindi sorellastra del Minotauro – per giungere al fulcrum, al centro del labirinto, uccidere il Minotauro e ritrovare poi la via d’uscita.

Già il labirinto di Cnosso, il padre di tutti i labirinti, e la vicenda di Teseo, in particolare, sono esemplificativi di un percorso iniziatico di discesa agli Inferi e uccisione del mostro – inteso spesso come il Male in noi – e successiva purificazione, concetto questo da sempre legato al percorso labirintico. Kerényi, nel suo saggio Nel labirinto (Bollati Boringhieri, Torino 1983), illustra il nesso tra labirinto di Cnosso e discesa iniziatica nel regno dell’Ade. Stando a Kerényi, infatti, il labirinto minoico simboleggia il regno dell’ Ade e l’eroe vi discende per purificarsi e tornare rinnovato. Il mito di Teseo è rivelatore altresì del dualismo di vita/morte, tenebre/luce, bene/male che da Cnosso fino a tutto il Medioevo contraddistinguerà il concetto di labirinto e che ne sarà un altro elemento caratterizzante. Dualismo che è presente già nell’etimologia della parola Labyrinthos. I filologi sono ancora incerti sull’origine del termine labirinto ma una delle ipotesi più accreditate è quella formulata nuovamente da Kerényi, grande esperto di labirinti, il quale nel saggio sopramenzionato lo fa derivare da lábrys, l’ascia bipenne che serviva per tagliare la roccia. Scrive Kerényi: “Una prima testimonianza circa l’antro del Minotauro risale al quarto secolo: presso Gortina, nel territorio del mitico regno di Minosse, ai viaggiatori viene indicata come il famoso labirinto una caverna sotterranea di pietra. Ciò parrebbe trovare conforto in una possibile etimologia della parola Labyrinthos a partire da lábrys (ascia bipenne), il labirinto avrebbe significato in origine ‘cava di pietra’ […] mentre il termine lábrys sarebbe stato impiegato a indicare l’ascia usata per lavorare nel labirinto”.

Possiamo quindi affermare che il labirinto di Cnosso – e a seguire tutti i labirinti fino al Medioevo compreso – rappresentassero un vero viaggio iniziatico e racchiudessero in sé simboli contrastanti di vita e di morte. Non si può dimenticare che al centro del labirinto minoico era imprigionato il Minotauro, un toro, simbolo di virilità e di vita per eccellenza, ma al tempo stesso simbolo del Male perfetto. Infatti esso viene ucciso, sacrificato. Come ci illustra il convincente saggio di Castleden, Il mistero di Cnosso, il labirinto cretese sarebbe stato in realtà un tempio nel quale si praticavano sacrifici animali, soprattutto di tori ma non solo, e che era consacrato alla Grande Madre, a Iside, alla Dea degli Inferi, rappresentata come dea dei serpenti. Le sacerdotesse che officiavano il culto si spingevano al fulcrum del labirinto, che poi era l’altare dove avvenivano i sacrifici, accompagnate dal suono di strumenti musicali, muovendosi in danze spiraliformi, rendendo così omaggio alla Dea dei serpenti alla quale il tempio era dedicato anche tenendo tra le mani sollevate i rettili. Grazie anche all’uso di oppio, vino e di una musica che si suppone incalzante le danze si trasformavano in riti orgiastici ai quali seguiva un delirio – simboleggiante una momentanea morte – e in seguito un risveglio-rinascita.
La dicotomia connaturata col labirinto è ribadita dal simbolo del serpente e della spirale. Il serpente, come il toro, è al tempo stesso simbolo di morte e del male ma anche di vita, poiché al cambio della pelle è legato il significato di rinnovamento e rinascita. Il serpente, inoltre, si muove con un movimento spiraliforme, che simboleggia a sua volta la morte e la rinascita, e è riprodotto sia nel movimento delle danze delle sacerdotesse, sia nella struttura architettonica del labirinto stesso.

Infatti la struttura originaria del labirinto (quello preistorico, minoico, romano e medievale) é unicursale, cioè costituita da un percorso spiraliforme che si avvolge fino a raggiungere il centro, senza biforcazioni; in questi labirinti non è difficile raggiungere il fulcrum perché non ci sono ramificazioni ingannevoli e anche l’uscita è facile da trovare percorrendo il percorso in senso inverso.
Come già visto per il labirinto cretese, il concetto che è alla base del percorso labirintico, cioè il dover necessariamente arrivare al centro, al fulcrum, ci suggerisce che ci troviamo di fronte a un processo di iniziazione, un cammino arduo che conduce l’uomo, facendolo passare attraverso la discesa agli Inferi e l’esperienza della morte, a raggiungere il centro della sua essenza, ponendolo dinnanzi al male assoluto che deve combattere per poter poi rinascere.



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