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 Anno V n° 11 NOVEMBRE 2009    -   PRIMA PAGINA



La questione morale nello sport
L’avidità e la progressiva perdita di valori hanno spazzato via l’etica dello sport. Doping, e non solo, trasformano quello che dovrebbe essere un divertimento in una jungla pericolosa
Di Silvano Filippini



Ultimamente si parla molto di questione morale in politica, ma ci si dimentica che da troppi anni il medesimo tema ha investito lo sport nazionale e internazionale. A tal punto da riuscire a sovvertire i principi fondanti di qualsiasi disciplina sportiva e cioè la ricerca della salute e il rispetto dell’avversario.

Anziché sfruttare l’attività sportiva per migliorare il sistema locomotore, quello cardio-circolatorio ed aumentare le capacità del sistema immunitario, troppi pseudo atleti tentano di mettere a repentaglio la propria salute attraverso gli innumerevoli sistemi dopanti, che la scienza moderna ha messo a disposizione di chi vuol trovare “scorciatoie” per raggiungere migliori risultati.
L’ultimo caso riguarda una nuotatrice adolescente che , nonostante la giovane età (15 anni), ha deciso di farsi somministrare sostanze proibite per migliorare le prestazioni in acqua. Se la ragazza è condannabile, sicuramente lo è ancor più la famiglia e, in particolare, il padre che assisteva alle sedute dopanti e induceva la figlia all’uso sistematico del doping. Per non parlare dei medici che inoculavano medicinali proibiti non solo dall’etica dello sport, ma dallo stesso giuramento di Ippocrate a cui devono sottostare affinché ogni medico per essere considerato tale.
Fatto sta che medicinali scoperti per combattere gravi malattie vengono sempre più prescritti a persone sanissime che non ne avrebbero bisogno e che, pertanto, sono costrette a subire i numerosi effetti collaterali, a volte anche gravi.

In effetti quasi tutte le sostanze utilizzate nel doping sono variazioni di quelle prodotte dal nostro corpo che hanno lo scopo di mantenere in perfetto equilibrio tutti i processi biochimici, anche in presenza di fattori esterni, che tentano di rompere tale equilibrio. Tra tali fattori si deve inserire l’attività fisica che modifica, col tempo e la costanza di allenamento, i valori di alcuni ormoni, per far fronte allo stress indotto dalla prestazione; anche le variazioni ambientali agiscono sulla biologia del nostro corpo, modificando alcuni parametri. Ma si tratta di produzioni endogene limitate. Se invece si iniettano dall’esterno, le dosi sono decisamente superiori e rompono quell’equilibrio di cui scrivevo prima, con gravi effetti sulla salute.

Purtroppo l’avidità e la progressiva perdita di valori hanno spazzato via l’etica dello sport, alimentando la ricerca del risultato ad ogni costo. Anche a rischio di ammalarsi o di morire. Come si è verificato di recente al ciclista belga, Vandenbroucke, deceduto in un letto d’hotel in Senegal a causa di un’embolia polmonare. Un affezione che colpisce soprattutto coloro che tentano di “densificare” il sangue. Ma si parla anche di uso di insulina: l’ultima trovata per aumentare la disponibilità di energia! Del resto il ciclista era passato professionista a 19 anni, saltando il dilettantismo. Un caso più unico che raro, che potrebbe celare il ricorso al doping sin dalla tenera età.

Il risultato della degenerazione in atto è sin troppo evidente:

  • ricerca sistematica del doping e dei sistemi atti ad eludere i controlli, non soltanto tra i professionisti, ma ancor più tra i dilettanti e i giovani che, oltretutto, non hanno uno staff medico in grado di controllarli e di limitare i pericoli della “chimica”;
  • atteggiamento antisportivo, soprattutto nei confronti degli avversari, e assai più diffuso negli sport di squadra (calcio in testa), al punto che chi non accetta il sistema è considerato perdente e poco furbo;
  • ricerca di ingaggi sempre più alti, tanto da raggiungere livelli considerati altamente immorali non solo dalla normale popolazione, ma pure dagli atleti di quegli sport erroneamente considerati “minori”;
  • degenerazione del sistema educativo degli allenatori e, purtroppo, degli istruttori del settore giovanile e di genitori che hanno perso completamente ogni riferimento educativo ed etico.
Fatto sta che, specialmente nel mondo femminile, l’ambizione fa spesso rima con testosterone; presso i ciclisti l’eritropoietina e le sue varianti (cera) sono quasi un obbligo per non venire tagliati fuori dal sistema; nel mondo dei velocisti gli stimolanti e gli anabolizzanti sono ormai di uso comune; presso i sollevatori di pesi (quelli più soggetti a squalifiche di massa in occasione degli appuntamenti più importanti) gli anabolizzanti sono il pane quotidiano; per non parlare dei culturisti che, per raggiungere masse muscolari che non servono a nulla, ingoiano di tutto.

La mancanza di etica ha invaso anche il campo economico-aziendale dell’industria dello sport. A parte il fatto che continuare a chiamarla industria mi pare ridicolo in quanto un’industria, per sopravvivere, deve avere i conti in regola, altrimenti è destinata al fallimento. Direi piuttosto che si tratta di un “giocattolo” riservato a pochi miliardari disposti a ripianare il disavanzo ogni volta che si manifesta. Almeno sino a quando il giocattolo non li diverte più e allora se ne vanno, lasciando le società in bancarotta e tutto l’ambiente di appassionati senza lo spettacolo domenicale.

E non c’ è bisogno di rispolverare il cattivo esempio di calciopoli, che ha evidenziato il totale crollo dell’etica. E’ sufficiente andare a leggere i dati dei più grossi club europei di calcio per capire che quasi tutti si indebitano nel tentativo di ottenere risultati che, spesso, non vengono neppure raggiunti. In testa le squadre inglesi del Chelsea e Manchester United (debito che sfiora il miliardo di €), seguite da ambedue i club di Madrid, dal Valencia, dal Barcellona e, finalmente, da Inter e Milan (vicine ai 400 milioni). Ma quasi tutti i club italiani di serie A sono in rosso, tanto da accumulare, in collettivo, oltre due miliardi di euro. E per fortuna che vi sono i cospicui proventi televisivi a limitare i danni, altrimenti la situazione sarebbe ancor più drammatica.

Del resto si tratta di un fatto culturale diffuso: i tifosi vogliono club vincenti e fanno pressione sui presidenti; gli agenti dei calciatori ricattano i club con richieste sempre più esose (pena il trasferimento); gli ultras ricattano le società per ottenere vantaggi economici (biglietti e trasferte gratuite) e rifiutano di adottare la “Tessera del tifoso”, introdotta dal ministro Maroni allo scopo di controllare i comportamenti delinquenziali di taluni; i presidenti licenziano continuamente gli allenatori appena i risultati latitano, anche se gli acquisti sono stati quasi sempre decisi dalla società.

Pure gli atleti non paiono essere stinchi di santo, dato che i loro grossi proventi vengono sempre più spesso nascosti in paradisi fiscali, sottraendo agli onesti cittadini somme che potrebbero risollevare le sorti di quelle famiglie in netta difficoltà a seguito della crisi e dei licenziamenti.

Forse una svolta atta a limitare gli assurdi comportamenti dei club di calcio europei potrebbe arrivare nel 2012, quando, secondo Platinì, le società potranno spendere in base agli incassi. Tuttavia ho paura che tutto, come al solito, finirà in un fuoco di paglia; come finirà in nulla la sacrosanta multa appioppata al calciatore Mutu che deve risarcire 17 milioni al club precedente a causa della lunga squalifica subita per aver fatto uso di cocaina. Se a suo tempo la stessa pena fosse stata inflitta a Maradona, con molta probabilità avrebbe smesso di drogarsi o di giocare. Infatti, se questi due principi venissero messi in atto sino in fondo, si potrebbe sperare in un miglioramento dei modelli culturali che hanno fatto degenerare il mondo dello sport e del calcio in particolare. Si tratterebbe di una svolta epocale atta a sradicare il comportamento sleale di tutti gli addetti ai lavori, al pari della famosa sentenza Bosman che ha tolto il vincolo a vita in tutti gli sport.



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